Parafrasi del canto XXIV del poema Orlando Furioso
1
Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno più espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
2
Vari gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giù, chi qua, chi là travia.
Per concludere in somma, io vi vo’ dire:
a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,
si convengono i ceppi e la catena.
3
Ben mi si potria dir: – Frate, tu vai
l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. –
Io vi rispondo che comprendo assai,
or che di mente ho lucido intervallo;
ed ho gran cura (e spero farlo ormai)
di riposarmi e d’uscir fuor di ballo:
ma tosto far, come vorrei, nol posso;
che ‘l male è penetrato infin all’osso.
4
Signor, ne l’altro canto io vi dicea
che ‘l forsennato e furioso Orlando
trattesi l’arme e sparse al campo avea,
squarciati i panni, via gittato il brando,
svelte le piante, e risonar facea
i cavi sassi e l’alte selve; quando
alcun’ pastori al suon trasse in quel lato
lor stella, o qualche lor grave peccato.
5
Viste del pazzo l’incredibil prove
poi più d’appresso e la possanza estrema,
si voltan per fuggir, ma non sanno ove,
sì come avviene in subitana tema.
Il pazzo dietro lor ratto si muove:
uno ne piglia, e del capo lo scema
con la facilità che torria alcuno
da l’arbor pome, o vago fior dal pruno.
6
Per una gamba il grave tronco prese,
e quello usò per mazza adosso al resto:
in terra un paio addormentato stese,
ch’al novissimo dì forse fia desto.
Gli altri sgombraro subito il paese,
ch’ebbono il piede e il buono aviso presto.
Non saria stato il pazzo al seguir lento,
se non ch’era già volto al loro armento.
7
Gli agricultori, accorti agli altru’esempli,
lascian nei campi aratri e marre e falci:
chi monta su le case e chi sui templi
(poi che non son sicuri olmi né salci),
onde l’orrenda furia si contempli,
ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci,
cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge;
e ben è corridor chi da lui fugge.
8
Già potreste sentir come ribombe
l’alto rumor ne le propinque ville
d’urli e di corni, rusticane trombe.
e più spesso che d’altro, il suon di squille;
e con spuntoni ed archi e spiedi e frombe
veder dai monti sdrucciolarne mille,
ed altritanti andar da basso ad alto,
per fare al pazzo un villanesco assalto.
9
Qual venir suol nel salso lito l’onda
mossa da l’austro ch’a principio scherza,
che maggior de la prima è la seconda,
e con più forza poi segue la terza;
ed ogni volta più l’umore abonda,
e ne l’arena più stende la sferza:
tal contra Orlando l’empia turba cresce,
che giù da balze scende e di valli esce.
10
Fece morir diece persone e diece,
che senza ordine alcun gli andaro in mano:
e questo chiaro esperimento fece,
ch’era assai più sicur starne lontano.
Trar sangue da quel corpo a nessun lece,
che lo fere e percuote il ferro invano.
Al conte il re del ciel tal grazia diede,
per porlo a guardia di sua santa fede.
11
Era a periglio di morire Orlando,
se fosse di morir stato capace.
Potea imparar ch’era a gittare il brando,
e poi voler senz’arme essere audace.
La turba già s’andava ritirando,
vedendo ogni suo colpo uscir fallace.
Orlando, poi che più nessun l’attende,
verso un borgo di case il camin prende.
12
Dentro non vi trovò piccol né grande,
che ‘l borgo ognun per tema avea lasciato.
v’erano in copia povere vivande,
convenienti a un pastorale stato.
Senza pane di scerner da le giande,
dal digiuno e da l’impeto cacciato,
le mani e il dente lasciò andar di botto
in quel che trovò prima, o crudo o cotto.
13
E quindi errando per tutto il paese,
dava la caccia e agli uomini e alle fere;
e scorrendo pei boschi, talor prese
i capri isnelli e le damme leggiere.
Spesso con orsi e con cingiai contese,
e con man nude li pose a giacere:
e di lor carne con tutta la spoglia
più volte il ventre empì con fiera voglia.
14
Di qua, di là, di su, di giù discorre
per tutta Francia; e un giorno a un ponte arriva,
sotto cui largo e pieno d’acqua corre
un fiume d’alta e di scoscesa riva.
Edificato accanto avea una torre
che d’ogn’intorno e di lontan scopriva.
Quel che fe’ quivi, avete altrove a udire;
che di Zerbin mi convien prima dire.
15
Zerbin, da poi ch’Orlando fu partito,
dimorò alquanto, e poi prese il sentiero
che ‘l paladino inanzi gli avea trito,
e mosse a passo lento il suo destriero.
Non credo che duo miglia anco fosse ito,
che trar vide legato un cavalliero
sopra un picciol ronzino, e d’ogni lato
la guardia aver d’un cavalliero armato.
16
Zerbin questo prigion conobbe tosto
che gli fu appresso, e così fe’ lssabella:
era Odorico il Biscaglin, che posto
fu come lupo a guardia de l’agnella.
L’avea a tutti gli amici suoi preposto
Zerbino in confidargli la donzella,
sperando che la fede che nel resto
sempre avea avuta, avesse ancora in questo.
17
Come era a punto quella cosa stata,
venìa Issabella raccontando allotta:
come nel palischermo fu salvata,
prima ch’avesse il mar la nave rotta;
la forza che l’avea Odorico usata;
e come tratta poi fosse alla grotta.
Né giunt’era anco al fin di quel sermone,
che trarre il malfattor vider prigione.
18
I duo ch’in mezzo avean preso Odorico,
d’Issabella notizia ebbeno vera;
e s’avisaro esser di lei l’amico,
e ‘l signor lor, colui ch’appresso l’era;
ma più, che ne lo scudo il segno antico
vider dipinto di sua stirpe altiera:
e trovar poi, che guardar meglio al viso,
che s’era al vero apposto il loro aviso.
19
Saltaro a piedi, e con aperte braccia
correndo se n’andar verso Zerbino,
e l’abbracciaro ove il maggior s’abbraccia,
col capo nudo e col ginocchio chino.
Zerbin, guardando l’uno e l’altro in faccia,
vide esser l’un Corebo il Biscaglino,
Almonio l’altro, ch’egli avea mandati
con Odorico in sul navilio armati.
20
Almonio disse: – Poi che piace a Dio
(la sua mercé) che sia Issabella teco,
io posso ben comprender, signor mio,
che nulla cosa nuova ora t’arreco,
s’io vo’ dir la cagion che questo rio
fa che cosi legato vedi meco;
che da costei, che più sentì l’offesa,
a punto avrai tutta l’istoria intesa.
21
Come dal traditore io fui schernito
quando da sé levommi, saper déi;
e come poi Corebo fu ferito,
ch’a difender s’avea tolto costei.
Ma quanto al mio ritorno sia seguito,
né veduto né inteso fu da lei,
che te l’abbia potuto riferire:
di questa parte dunque io ti vo’ dire.
22
Da la cittade al mar ratto io veniva
con cavalli ch’in fretta avea trovati,
sempre con gli occhi intenti s’io scopriva
costor che molto a dietro eran restati.
Io vengo inanzi, io vengo in su la riva
del mare, al luogo ove io gli avea lasciati;
io guardo, né di loro altro ritrovo,
che ne l’arena alcun vestigio nuovo.
23
La pesta seguitai, che mi condusse
nel bosco fier; né molto adentro fui,
che, dove il suon l’orecchie mi percusse,
giacere in terra ritrovai costui.
Gli domandai che de la donna fusse,
che d’Odorico, e chi aveva offeso lui.
Io me n’andai, poi che la cosa seppi,
il traditor cercando per quei greppi.
24
Molto aggirando vommi, e per quel giorno
altro vestigio ritrovar non posso.
Dove giacea Corebo al fin ritorno,
che fatto appresso avea il terren sì rosso,
che poco più che vi facea soggiorno,
gli saria stato di bisogno il fosso
e i preti e i frati più per sotterrarlo,
ch’i medici e che ‘l letto per sanarlo.
25
Dal bosco alla città feci portallo,
e posi in casa d’uno ostier mio amico,
che fatto sano in poco termine hallo
per cura ed arte d’un chirurgo antico.
Poi d’arme proveduti e di cavallo
Corebo ed io cercammo d’Odorico,
ch’in corte del re Alfonso di Biscaglia
trovammo; e quivi fui seco a battaglia.
26
La giustizia del re, che il loco franco
de la pugna mi diede, e la ragione,
ed oltre alla ragion la Fortuna anco,
che spesso la vittoria, ove vuol, pone,
mi giovar sì, che di me poté manco
il traditore; onde fu mio prigione.
Il re, udito il gran fallo, mi concesse
di poter farne quanto mi piacesse.
27
Non l’ho voluto uccider né lasciarlo,
ma, come vedi, trarloti in catena;
perché vo’ ch’a te stia di giudicarlo,
se morire o tener si deve in pena.
L’avere inteso ch’eri appresso a Carlo,
e ‘l desir di trovarti qui mi mena.
Ringrazio Dio che mi fa in questa parte,
dove lo sperai meno, ora trovarte.
28
Ringraziolo anco, che la tua Issabella
io veggo (e non so come) che teco hai;
di cui, per opera del fellon, novella
pensai che non avessi ad udir mai. –
Zerbino ascolta Almonio e non favella,
fermando gli occhi in Odorico assai;
non sì per odio, come che gl’incresce
ch’a sì mal fin tanta amicizia gli esce.
29
Finito ch’ebbe Almonio il suo sermone,
Zerbin riman gran pezzo sbigottito,
che chi d’ogn’altro men n’avea cagione,
sì espressamente il possa aver tradito.
Ma poi che d’una lunga ammirazione
fu, sospirando, finalmente uscito,
al prigion domandò se fosse vero
quel ch’avea di lui detto il cavalliero.
30
Il disleal con le ginocchia in terra
lasciò cadersi, e disse: – Signor mio,
ognun che vive al mondo pecca ed erra:
né differisce in altro il buon dal rio,
se non che l’uno è vinto ad ogni guerra
che gli vien mossa da un piccol disio;
l’altro ricorre all’arme e si difende,
ma se ‘l nimico è forte, anco ei si rende.
31
Se tu m’avessi posto alla difesa
d’una tua rocca, e ch’al primiero assalto
alzate avessi, senza far contesa,
degl’inimici le bandiere in alto;
di viltà, o tradimento, che più pesa,
sugli occhi por mi si potria uno smalto:
ma s’io cedessi a forza, son ben certo
che biasmo non avrei, ma gloria e merto.
32
Sempre che l’inimico è più possente,
più chi perde accettabile ha la scusa.
Mia fé guardar dovea non altrimente
ch’una fortezza d’ogn’intorno chiusa:
così, con quanto senno e quanta mente
da la somma Prudenza m’era infusa,
io mi sforzai guardarla; ma al fin vinto
da intolerando assalto, ne fui spinto. –
33
Così disse Odorico, e poi soggiunse
(che saria lungo a ricontarvi il tutto)
mostrando che gran stimolo lo punse,
e non per lieve sferza s’era indutto.
Se mai per prieghi ira di cor si emunse,
s’umiltà di parlar fece mai frutto,
quivi far lo dovea; che ciò che muova
di cor durezza, ora Odorico trova.
34
Pigliar di tanta ingiuria alta vendetta,
tra il sì Zerbino e il no resta confuso:
il vedere il demerito lo alletta
a far che sia il fellon di vita escluso;
il ricordarsi l’amicizia stretta
ch’era stata tra lor per sì lungo uso,
con l’acqua di pietà l’accesa rabbia
nel cor gli spegne, e vuol che mercé n’abbia.
35
Mentre stava così Zerbino in forse
di liberare, o di menar captivo,
o pur il disleal dagli occhi torse
per morte, o pur tenerlo in pena vivo;
quivi rignando il palafreno corse,
che Mandricardo avea di briglia privo;
e vi portò la vecchia che vicino
a morte dianzi avea tratto Zerbino.
36
Il palafren, ch’udito di lontano
avea quest’altri, era tra lor venuto,
e la vecchia portatavi, ch’invano
venìa piangendo e domandando aiuto.
Come Zerbin lei vide, alzò la mano
al ciel che sì benigno gli era suto,
che datogli in arbitrio avea que’ dui
che soli odiati esser dovean da lui.
37
Zerbin fa ritener la mala vecchia,
tanto che pensi quel che debba farne:
tagliarle il naso e l’una e l’altra orecchia
pensa, ed esempio a’ malfattori darne;
poi gli par assai meglio, s’apparecchia
un pasto agli avoltoi di quella carne.
Punizion diversa tra sé volve;
e così finalmente si risolve.
38
Si rivolta ai compagni, e dice: – Io sono
di lasciar vivo il disleal contento;
che s’in tutto non merita perdono,
non merita anco sì crudel tormento.
Che viva e che slegato sia gli dono,
però ch’esser d’Amor la colpa sento;
e facilmente ogni scusa s’ammette,
quando in Amor la colpa si reflette.
39
Amore ha volto sottosopra spesso
senno più saldo che non ha costui,
ed ha condotto a via maggiore eccesso
di questo, ch’oltraggiato ha tutti nui.
Ad Odorico debbe esser rimesso:
punito esser debbo io, che cieco fui,
cieco a dargline impresa, e non por mente
che ‘l fuoco arde la paglia facilmente. –
40
Poi mirando Odorico: – Io vo’ che sia
(gli disse) del tuo error la penitenza,
che la vecchia abbi un anno in compagnia,
né di lasciarla mai ti sia licenza;
ma notte e giorno, ove tu vada o stia,
un’ora mai non te ne trovi senza;
e fin a morte sia da te difesa
contra ciascun che voglia farle offesa.
41
Vo’, se da lei ti sarà commandato,
che pigli contra ognun contesa e guerra:
vo’ in questo tempo, che tu sia ubligato
tutta Francia cercar di terra in terra. –
Così dicea Zerbin; che pel peccato
meritando Odorico andar sotterra,
questo era porgli inanzi un’alta fossa,
che fia gran sorte che schivar la possa.
42
Tante donne, tanti uomini traditi
avea la vecchia, e tanti offesi e tanti,
che chi sarà con lei, non senza liti
potrà passar de’ cavallieri erranti.
Così di par saranno ambi puniti:
ella de’ suoi commessi errori inanti,
egli di torne la difesa a torto;
né molto potrà andar che non sia morto.
43
Di dover servar questo, Zerbin diede
ad Odorico un giuramento forte,
con patto che se mai rompe la fede,
e ch’inanzi gli capiti per sorte,
senza udir prieghi e averne più mercede,
lo debba far morir di cruda morte.
Ad Almonio e a Corebo poi rivolto,
fece Zerbin che fu Odorico sciolto.
44
Corebo, consentendo Almonio, sciolse
il traditore al fin, ma non in fretta;
ch’all’uno e all’altro esser turbato dolse
da sì desiderata sua vendetta.
Quindi partissi il disleale, e tolse
in compagnia la vecchia maledetta.
Non si legge in Turpin che n’avvenisse;
ma vidi già un autor che più ne scrisse.
45
Scrive l’autore, il cui nome mi taccio,
che non furo lontani una giornata,
che per torsi Odorico quello impaccio,
contra ogni patto ed ogni fede data,
al collo di Gabrina gittò un laccio,
e che ad un olmo la lasciò impiccata;
e ch’indi a un anno (ma non dice il loco)
Almonio a lui fece il medesmo giuoco.
46
Zerbin che dietro era venuto all’orma
del paladin, né perder la vorrebbe,
manda a dar di sé nuove alla sua torma,
che star senza gran dubbio non ne debbe:
Almonio manda, e di più cose informa,
che lungo il tutto a ricontar sarebbe;
Almonio manda, e a lui Corebo appresso;
né tien, fuor ch’Issabella, altri con esso.
47
Tant’era l’amor grande che Zerbino,
e non minor del suo quel che Issabella
portava al virtuoso paladino;
tanto il desir d’intender la novella
ch’egli avesse trovato il Saracino
che del destrier lo trasse con la sella;
che non farà all’esercito ritorno,
se non finito che sia il terzo giorno;
48
il termine ch’Orlando aspettar disse
il cavallier ch’ancor non porta spada.
Non è alcun luogo dove il conte gisse,
che Zerbin pel medesimo non vada.
Giunse al fin tra quegli arbori che scrisse
l’ingrata donna, un poco fuor di strada;
e con la fonte e col vicino sasso
tutti li ritruovò messi in fracasso.
49
Vede lontan non sa che luminoso,
e trova la corazza esser del conte;
e trova l’elmo poi, non quel famoso
ch’armò già il capo all’africano Almonte.
Il destrier ne la selva più nascoso
sente anitrire, e leva al suon la fronte;
e vede Brigliador pascer per l’erba,
che dall’arcion pendente il freno serba.
50
Durindana cercò per la foresta,
e fuor la vide del fodero starse.
Trovò, ma in pezzi, ancor la sopravesta
ch’in cento lochi il miser conte sparse.
Issabella e Zerbin con faccia mesta
stanno mirando, e non san che pensarse:
pensar potrian tutte le cose, eccetto
che fosse Orlando fuor dell’intelletto.
51
Se di sangue vedessino una goccia,
creder potrian che fosse stato morto.
Intanto lungo la corrente doccia
vider venire un pastorello smorto.
Costui pur dianzi avea di su la roccia
l’alto furor de l’infelice scorto,
come l’arme gittò, squarciossi i panni,
pastori uccise, e fe’ mill’altri danni.
52
Costui, richiesto da Zerbin, gli diede
vera informazion di tutto questo.
Zerbin si maraviglia, e a pena il crede;
e tuttavia n’ha indizio manifesto.
Sia come vuole, egli discende a piede,
pien di pietade, lacrimoso e mesto;
e ricogliendo da diversa parte
le reliquie ne va ch’erano sparte.
53
Del palafren discende anco Issabella,
e va quell’arme riducendo insieme.
Ecco lor sopraviene una donzella
dolente in vista, e di cor spesso geme.
Se mi domanda alcun chi sia, perch’ella
così s’affligge, e che dolor la preme,
io gli risponderò che è Fiordiligi
che de l’amante suo cerca i vestigi.
54
Da Brandimarte senza farle motto
lasciata fu ne la città di Carlo,
dov’ella l’aspettò sei mesi od otto;
e quando al fin non vide ritornarlo,
da un mare all’altro si mise, fin sotto
Pirene e l’Alpe, e per tutto a cercarlo:
l’andò cercando in ogni parte, fuore
ch’al palazzo d’Atlante incantatore.
55
Se fosse stata a quell’ostel d’Atlante,
veduto con Gradasso andare errando
l’avrebbe, con Ruggier, con Bradamante,
e con Ferraù prima e con Orlando;
ma poi che cacciò Astolfo il negromante
col suono del corno orribile e mirando,
Brandimarte tornò verso Parigi:
ma non sapea già questo Fiordiligi.
56
Come io vi dico, sopraggiunta a caso
a quei duo amanti Fiordiligi bella,
conobbe l’arme, e Brigliador rimaso
senza il patrone e col freno alla sella.
Vide con gli occhi il miserabil caso,
e n’ebbe per udita anco novella;
che similmente il pastorel narrolle
aver veduto Orlando correr folle.
57
Quivi Zerbin tutte raguna l’arme,
e ne fa come un bel trofeo su ‘n pino;
e volendo vietar che non se n’arme
cavallier paesan né peregrino,
scrive nel verde ceppo in breve carme:
– Armatura d’Orlando paladino; –
come volesse dir: nessun la muova,
che star non possa con Orlando a prova.
58
Finito ch’ebbe la lodevol opra,
tornava a rimontar sul suo destriero;
ed ecco Mandricardo arrivar sopra,
che visto il pin di quelle spoglie altiero,
lo priega che la cosa gli discuopra:
e quel gli narra, come ha inteso, il vero.
Allora il re pagan lieto non bada,
che viene al pino, e ne leva la spada,
59
dicendo: – Alcun non me ne può riprendere;
non è pur oggi ch’io l’ho fatta mia,
ed il possesso giustamente prendere
ne posso in ogni parte, ovunque sia.
Orlando che temea quella difendere,
s’ha finto pazzo, e l’ha gittata via;
ma quando sua viltà pur così scusi,
non debbe far ch’io mia ragion non usi. –
60
Zerbino a lui gridava: – Non la torre,
o pensa non l’aver senza questione.
Se togliesti così l’arme d’Ettorre,
tu l’hai di furto, più che di ragione. –
Senz’altro dir l’un sopra l’altro corre,
d’animo e di virtù gran paragone.
Di cento colpi già rimbomba il suono,
né bene ancor ne la battaglia sono.
61
Di prestezza Zerbin pare una fiamma
a torsi ovunque Durindana cada:
di qua di là saltar come una damma
fa ‘l suo destrier dove è miglior la strada.
E ben convien che non ne perda dramma;
ch’andrà, s’un tratto il coglie quella spada,
a ritrovar gl’innamorati spirti
ch’empion la selva degli ombrosi mirti.
62
Come il veloce can che ‘l porco assalta
che fuor del gregge errar vegga nei campi,
lo va aggirando, e quinci e quindi salta;
ma quello attende ch’una volta inciampi:
così, se vien la spada o bassa od alta,
sta mirando Zerbin come ne scampi;
come la vita e l’onor salvi a un tempo,
tien sempre l’occhio, e fiere e fugge a tempo.
63
Da l’altra parte, ovunque il Saracino
la fiera spada vibra o piena o vota,
sembra fra due montagne un vento alpino
ch’una frondosa selva il marzo scuota;
ch’ora la caccia a terra a capo chino,
or gli spezzati rami in aria ruota.
Ben che Zerbin più colpi e fùggia e schivi,
non può schivare al fin, ch’un non gli arrivi.
64
Non può schivare al fine un gran fendente
che tra ‘l brando e lo scudo entra sul petto.
Grosso l’usbergo, e grossa parimente
era la piastra, e ‘l panziron perfetto:
pur non gli steron contra, ed ugualmente
alla spada crudel dieron ricetto.
Quella calò tagliando ciò che prese,
la corazza e l’arcion fin su l’arnese.
65
E se non che fu scarso il colpo alquanto,
permezzo lo fendea come una canna;
ma penetra nel vivo a pena tanto,
che poco più che la pelle gli danna:
la non profunda piaga è lunga quanto
non si misureria con una spanna.
Le lucid’arme il caldo sangue irriga
per sino al piè di rubiconda riga.
66
Così talora un bel purpureo nastro
ho veduto partir tela d’argento
da quella bianca man più ch’alabastro,
da cui partire il cor spesso mi sento.
Quivi poco a Zerbin vale esser mastro
di guerra, ed aver forza e più ardimento;
che di finezza d’arme e di possanza
il re di Tartaria troppo l’avanza.
67
Fu questo colpo del pagan maggiore
in apparenza, che fosse in effetto;
tal ch’Issabella se ne sente il core
fendere in mezzo all’agghiacciato petto.
Zerbin pien d’ardimento e di valore
tutto s’infiamma d’ira e di dispetto;
e quanto più ferire a due man puote,
in mezzo l’elmo il Tartaro percuote.
68
Quasi sul collo del destrier piegosse
per l’aspra botta il Saracin superbo;
e quando l’elmo senza incanto fosse,
partito il capo gli avria il colpo acerbo.
Con poco differir ben vendicosse,
né disse: A un’altra volta io te la serbo:
e la spada gli alzò verso l’elmetto,
sperandosi tagliarlo infin al petto.
69
Zerbin che tenea l’occhio ove la mente,
presto il cavallo alla man destra volse;
non sì presto però, che la tagliente
spada fuggisse, che lo scudo colse.
Da sommo ad imo ella il partì ugualmente,
e di sotto il braccial roppe e disciolse
e lui ferì nel braccio, e poi l’arnese
spezzògli, e ne la coscia anco gli scese.
70
Zerbin di qua di là cerca ogni via,
né mai di quel che vuol, cosa gli avviene;
che l’armatura sopra cui feria,
un piccol segno pur non ne ritiene.
Da l’altra parte il re di Tartaria
sopra Zerbino a tal vantaggio viene,
che l’ha ferito in sette parti o in otto,
tolto lo scudo, e mezzo l’elmo rotto.
71
Quel tuttavia più va perdendo il sangue;
manca la forza, e ancor par che nol senta:
il vigoroso cor che nulla langue,
val sì, che ‘l debol corpo ne sostenta.
La donna sua, per timor fatta esangue,
intanto a Doralice s’appresenta,
e la priega e la supplica per Dio,
che partir voglia il fiero assalto e rio.
72
Cortese come bella, Doralice,
né ben sicura come il fatto segua,
fa volentier quel ch’Issabella dice,
e dispone il suo amante a pace e a triegua.
Così a’ prieghi de l’altra l’ira ultrice
di cor fugge a Zerbino e si dilegua:
ed egli, ove a lei par, piglia la strada,
senza finir l’impresa de la spada.
73
Fiordiligi, che mal vede difesa
la buona spada del misero conte,
tacita duolsi, e tanto le ne pesa,
che d’ira piange e battesi la fronte.
Vorria aver Brandimarte a quella impresa;
e se mai lo ritrova e gli lo conte,
non crede poi che Mandricardo vada
lunga stagione altier di quella spada.
74
Fiordiligi cercando pure invano
va Brandimarte suo matina e sera;
e fa camin da lui molto lontano,
da lui che già tornato a Parigi era.
Tanto ella se n’andò per monte e piano,
che giunse ove, al passar d’una riviera,
vide e conobbe il miser paladino;
ma diciàn quel ch’avvenne di Zerbino:
75
che ‘l lasciar Durindana sì gran fallo
gli par, che più d’ogn’altro mal gl’incresce;
quantunque a pena star possa a cavallo
pel molto sangue che gli è uscito ed esce.
Or poi che dopo non troppo intervallo
cessa con l’ira il caldo, il dolor cresce:
cresce il dolor sì impetuosamente,
che mancarsi la vita se ne sente.
76
Per debolezza più non potea gire;
sì che fermossi appresso una fontana.
Non sa che far né che si debba dire
per aiutarlo la donzella umana.
Sol di disagio lo vede morire;
che quindi è troppo ogni città lontana,
dove in quel punto al medico ricorra,
che per pietade o premio gli soccorra.
77
Ella non sa se non invan dolersi,
chiamar fortuna e il cielo empio e crudele.
– Perché, ahi lassa! (dicea) non mi sommersi
quando levai ne l’Oceàn le vele? –
Zerbin che i languidi occhi ha in lei conversi,
sente più doglia ch’ella si querele,
che de la passion tenace e forte
che l’ha condutto omai vicino a morte.
78
– Così, cor mio, vogliate (le diceva),
dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora,
come solo il lasciarvi è che m’aggreva
qui senza guida, e non già perch’io mora:
che se in sicura parte m’accadeva
finir de la mia vita l’ultima ora,
lieto e contento e fortunato a pieno
morto sarei, poi ch’io vi moro in seno.
79
Ma poi che ‘l mio destino iniquo e duro
vol ch’io vi lasci, e non so in man di cui;
per questa bocca e per questi occhi giuro,
per queste chiome onde allacciato fui,
che disperato nel profondo oscuro
vo de lo ‘nferno, ove il pensar di vui
ch’abbia così lasciata, assai più ria
sarà d’ogn’altra pena che vi sia. –
80
A questo la mestissima Issabella,
declinando la faccia lacrimosa
e congiungendo la sua bocca a quella
di Zerbin, languidetta come rosa,
rosa non colta in sua stagion, sì ch’ella
impallidisca in su la siepe ombrosa,
disse: – Non vi pensate già, mia vita,
far senza me quest’ultima partita.
81
Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi;
ch’io vo’ seguirvi o in cielo o ne lo ‘nferno.
Convien che l’uno e l’altro spirto scocchi,
insieme vada, insieme stia in eterno.
Non sì tosto vedrò chiudervi gli occhi,
o che m’ucciderà il dolore interno,
o se quel non può tanto, io vi prometto
con questa spada oggi passarmi il petto.
82
De’ corpi nostri ho ancor non poca speme,
che me’ morti che vivi abbian ventura.
Qui forse alcun capiterà, ch’insieme,
mosso a pietà, darà lor sepoltura. –
Così dicendo, le reliquie estreme
de lo spirto vital che morte fura,
va ricogliendo con le labra meste,
fin ch’una minima aura ve ne reste.
83
Zerbin la debol voce riforzando,
disse: – Io vi priego e supplico, mia diva,
per quello amor che mi mostraste, quando
per me lasciaste la paterna riva;
e se commandar posso, io vel commando,
che fin che piaccia a Dio, restiate viva;
né mai per caso pogniate in oblio
che quanto amar si può, v’abbia amato io.
84
Dio vi provederà d’aiuto forse,
per liberarvi d’ogni atto villano,
come fe’ quando alla spelonca torse,
per indi trarvi, il senator romano.
Così (la sua mercé) già vi soccorse
nel mare e contra il Biscaglin profano:
e se pure avverrà che poi si deggia
morire, allora il minor mal s’elleggia. –
85
Non credo che quest’ultime parole
potesse esprimer sì, che fosse inteso;
e finì come il debol lume suole,
cui cera manchi od altro in che sia acceso.
Chi potrà dire a pien come si duole,
poi che si vede pallido e disteso,
la giovanetta, e freddo come ghiaccio
il suo caro Zerbin restare in braccio?
86
Sopra il sanguigno corpo s’abbandona,
e di copiose lacrime lo bagna,
e stride sì, ch’intorno ne risuona
a molte miglia il bosco e la campagna.
Né alle guance né al petto si perdona,
che l’uno e l’altro non percuota e fragna;
e straccia a torto l’auree crespe chiome,
chiamando sempre invan l’amato nome.
87
In tanta rabbia, in tal furor sommersa
l’avea la doglia sua, che facilmente
avria la spada in se stessa conversa,
poco al suo amante in questo ubidiente;
s’uno eremita ch’alla fresca e tersa
fonte avea usanza di tornar sovente
da la sua quindi non lontana cella,
non s’opponea, venendo, al voler d’ella.
88
Il venerabile uom, ch’alta bontade
avea congiunta a natural prudenza,
ed era tutto pien di caritade,
di buoni esempi ornato e d’eloquenza,
alla giovan dolente persuade
con ragioni efficaci pazienza;
e inanzi le puon, come uno specchio,
donne del Testamento e nuovo e vecchio.
89
Poi le fece veder, come non fusse
alcun, se non in Dio, vero contento,
e ch’eran l’altre transitorie e flusse
speranze umane, e di poco momento;
e tanto seppe dir, che la ridusse
da quel crudele ed ostinato intento,
che la vita sequente ebbe disio
tutta al servigio dedicar di Dio.
90
Non che lasciar del suo signor voglia unque
né ‘l grand’amor, né le reliquie morte:
convien che l’abbia ovunque stia ed ovunque
vada, e che seco e notte e dì le porte.
Quindi aiutando l’eremita dunque,
ch’era de la sua età valido e forte,
sul mesto suo destrier Zerbin posaro,
e molti dì per quelle selve andaro.
91
Non volse il cauto vecchio ridur seco,
sola con solo, la giovane bella
là dove ascosa in un selvaggio speco
non lungi avea la solitaria cella;
fra sé dicendo: – Con periglio arreco
in una man la paglia e la facella. –
Né si fida in sua età né in sua prudenza,
che di sé faccia tanta esperienza.
92
Di condurla in Provenza ebbe pensiero
non lontano a Marsilia in un castello,
dove di sante donne un monastero
ricchissimo era, e di edificio bello:
e per portarne il morto cavalliero,
composto in una cassa aveano quello,
che ‘n un castel ch’era tra via, si fece
lunga e capace, e ben chiusa di pece.
93
Più e più giorni gran spazio di terra
cercaro, e sempre per lochi più inculti;
che pieno essendo ogni cosa di guerra,
voleano gir più che poteano occulti.
Al fine un cavallier la via lor serra,
che lor fe’ oltraggi e disonesti insulti;
di cui dirò quando il suo loco fia;
ma ritorno ora al re di Tartaria.
94
Avuto ch’ebbe la battaglia il fine
che già v’ho detto, il giovin si raccolse
alle fresche ombre e all’onde cristalline;
ed al destrier la sella e ‘l freno tolse,
e lo lasciò per l’erbe tenerine
del prato andar pascendo ove egli volse:
ma non ste’ molto, che vide lontano
calar dal monte un cavalliero al piano.
95
Conobbel, come prima alzò la fronte,
Doralice, e mostrollo a Mandricardo,
dicendo: – Ecco il superbo Rodomonte,
se non m’inganna di lontan lo sguardo.
Per far teco battaglia cala il monte:
or ti potrà giovar l’esser gagliardo.
Perduta avermi a grande ingiuria tiene,
ch’era sua sposa, e a vendicar si viene. –
96
Qual buono astor che l’anitra o l’acceggia,
starna o colombo o simil altro augello
venirsi incontra di lontano veggia,
leva la testa e si fa lieto e bello;
tal Mandricardo, come certo deggia
di Rodomonte far strage e macello,
con letizia e baldanza il destrier piglia,
le staffe ai piedi, e dà alla man la briglia.
97
Quando vicini fur sì, ch’udir chiare
tra lor poteansi le parole altiere,
con le mani e col capo a minacciare
incominciò gridando il re d’Algiere,
ch’a penitenza gli faria tornare
che per un temerario suo piacere
non avesse rispetto a provocarsi
lui ch’altamente era per vendicarsi.
98
Rispose Mandricardo: – Indarno tenta
chi mi vuol impaurir per minacciarme:
così fanciulli o femine spaventa,
o altri che non sappia che sieno arme;
me non, cui la battaglia più talenta
d’ogni riposo; e son per adoprarme
a piè, a cavallo, armato e disarmato,
sia alla campagna, o sia ne lo steccato. –
99
Ecco sono agli oltraggi, al grido, all’ire,
al trar de’ brandi, al crudel suon de’ ferri;
come vento che prima a pena spire,
poi cominci a crollar frassini e cerri,
ed indi oscura polve in cielo aggire,
indi gli arbori svella e case atterri,
sommerga in mare, e porti ria tempesta
che ‘l gregge sparso uccida alla foresta.
100
De’ duo pagani, senza pari in terra,
gli audacissimi cor, le forze estreme
parturiscono colpi, ed una guerra
conveniente a sì feroce seme.
Del grande e orribil suon triema la terra,
quando le spade son percosse insieme:
gettano l’arme insin al ciel scintille,
anzi lampadi accese a mille a mille.
101
Senza mai riposarsi o pigliar fiato
dura fra quei duo re l’aspra battaglia,
tentando ora da questo, or da quel lato
aprir le piastre e penetrar la maglia.
Né perde l’un, né l’altro acquista il prato,
ma come intorno sian fosse o muraglia,
o troppo costi ogn’oncia di quel loco,
non si parton d’un cerchio angusto e poco.
102
Fra mille colpi il Tartaro una volta
colse a duo mani in fronte il re d’Algiere;
che gli fece veder girare in volta
quante mai furon fiacole e lumiere.
Come ogni forza all’African sia tolta,
le groppe del destrier col capo fere:
perde la staffa, ed è, presente quella
che cotant’ama, per uscir di sella.
103
Ma come ben composto e valido arco
di fino acciaio in buona somma greve,
quanto si china più, quanto è più carco,
e più lo sforzan martinelli e lieve;
con tanto più furor, quanto è poi scarco,
ritorna, e fa più mal che non riceve:
così quello African tosto risorge,
e doppio il colpo all’inimico porge.
104
Rodomonte a quel segno ove fu colto,
colse a punto il figliol del re Agricane.
Per questo non poté nuocergli al volto,
ch’in difesa trovò l’arme troiane;
ma stordì in modo il Tartaro, che molto
non sapea s’era vespero o dimane.
L’irato Rodomonte non s’arresta,
che mena l’altro, e pur segna alla testa.
105
Il cavallo del Tartaro, ch’aborre
la spada che fischiando cala d’alto,
al suo signor con suo gran mal soccorre,
perché s’arretra, per fuggir, d’un salto:
il brando in mezzo il capo gli trascorre,
ch’al signor, non a lui, movea l’assalto.
Il miser non avea l’elmo di Troia,
come il patrone; onde convien che muoia.
106
Quel cade, e Mandricardo in piedi guizza,
non più stordito, e Durindana aggira.
Veder morto il cavallo entro gli adizza,
e fuor divampa un grave incendio d’ira.
L’African, per urtarlo, il destrier drizza;
ma non più Mandricardo si ritira,
che scoglio far soglia da l’onde: e avvenne
che ‘l destrier cadde, ed egli in piè si tenne.
107
L’African che mancarsi il destrier sente,
lascia le staffe e sugli arcion si ponta,
e resta in piedi e sciolto agevolmente:
così l’un l’altro poi di pari affronta.
La pugna più che mai ribolle ardente,
e l’odio e l’ira e la superbia monta:
ed era per seguir; ma quivi giunse
in fretta un messagger che gli disgiunse.
108
Vi giunse un messagger del popul Moro,
di molti che per Francia eran mandati
a richiamare agli stendardi loro
i capitani e i cavallier privati;
perché l’imperator dai gigli d’oro
gli avea gli alloggiamenti già assediati;
e se non è il soccorso a venir presto,
l’eccidio suo conosce manifesto.
109
Riconobbe il messaggio i cavallieri,
oltre all’insegne, oltre alle sopraveste,
al girar de le spade, e ai colpi fieri
ch’altre man non farebbeno che queste.
Tra lor però non osa entrar, che speri
che fra tant’ira sicurtà gli preste
l’esser messo del re; né si conforta
per dir ch’imbasciator pena non porta.
110
Ma viene a Doralice, ed a lei narra
ch’Agramante, Marsilio e Stordilano,
con pochi dentro a mal sicura sbarra
sono assediati dal popul cristiano.
Narrato il caso, con prieghi ne inarra
che faccia il tutto ai duo guerrieri piano,
e che gli accordi insieme, e per lo scampo
del popul saracin li meni in campo.
111
Tra i cavallier la donna di gran core
si mette, e dice loro: – Io vi comando,
per quanto so che mi portate amore,
che riserbiate a miglior uso il brando,
e ne vegnate subito in favore
del nostro campo saracino, quando
si trova ora assediato ne le tende,
e presto aiuto, o gran ruina attende. –
112
lndi il messo soggiunse il gran periglio
dei Saracini, e narrò il fatto a pieno;
e diede insieme lettere del figlio
del re Troiano al figlio d’Ulieno.
Si piglia finalmente per consiglio
che i duo guerrier, deposto ogni veneno,
facciano insieme triegua fin al giorno
che sia tolto l’assedio ai Mori intorno;
113
e senza più dimora, come pria
liberato d’assedio abbian lor gente,
non s’intendano aver più compagnia,
ma crudel guerra e inimicizia ardente,
fin che con l’arme diffinito sia
chi la donna aver de’ meritamente.
Quella, ne le cui man giurato fue,
fece la sicurtà per amendue.
114
Quivi era la Discordia impaziente,
inimica di pace e d’ogni triegua;
e la Superbia v’è, che non consente
né vuol patir che tale accordo segua.
Ma più di lor può Amor quivi presente,
di cui l’alto valor nessuno adegua;
e fe’ ch’indietro, a colpi di saette,
e la Discordia e la Superbia stette.
115
Fu conclusa la triegua fra costoro
sì come piacque a chi di lor potea.
Vi mancava uno dei cavalli loro,
che morto quel del Tartaro giacea:
però vi venne a tempo Brigliadoro,
che le fresche erbe lungo il rio pascea.
Ma al fin del canto io mi trovo esser giunto;
sì ch’io farò, con vostra grazia, punto.