Dietro a Gertrude, la monaca di Monza, si cela un personaggio storico appartenente ad una ricca e potente famiglia: Marianna De Leva, il cui padre era figlio del primo governatore spagnolo di Milano e la cui madre era vedova di un Savoia.
La ragazza fu allevata nel convento delle Umiliate a Monza e prese i voti in giovane età con il nome di suor Virginia. Marianna cadde poi vittima delle attenzioni di un giovane ricco ed ozioso, un tale Paolo Osio, divenendo più volte madre ed infine mandante dell’omicidio di una suora intenzionata a rivelare lo scandalo.
Suor Virginia morì di vecchiaia nel convento delle Convertite, mentre Paolo Osio fu condannato ad una morte feroce.
Tutti questi particolari vengono ampiamente raccontati da Alessandro Manzoni nel romanzo I Promessi Sposi, seppur tralasciando di nominare direttamente le persone coinvolte ed i luoghi teatro delle vicende.
Nella sua narrazione, l’autore si sofferma però non tanto sui peccati commessi dalla giovane quanto sulla violenza familiare da lei subita. La ragazza era stata di fatto forzata dal padre a prendere i voti contro la sua volontà, con l’unico scopo di conservare intatto il proprio patrimonio a favore del primo figlio maschio. La vocazione imposta e non sentita rende Gertrude una donna infelice e soggetta a peccare, ma allo stesso tempo tra le passioni che agitano violentemente il suo spirito si ravvisa un profondo senso di colpevolezza. E’ proprio questo conflitto interiore tra malvagità e pentimento che dà al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità.
Emblematica è a questo proposito la vicenda del rapimento di Lucia:
La monaca accetta di aiutare la giovane anche per il fatto di sentire un certo sollievo nel far del bene ad una creatura innocente, nel soccorrere ed aiutare oppressi. Quando Egidio (il Paolo Osio del romanzo) le chiede di essere complice nel rapimento di Lucia per conto dell’Innominato, la monaca è terrorizzata dalla richiesta ma non riesce però ad opporsi. Gertrude cambia così un mezzo di espiazione in una nuove ragione di rimorso.
Gertrude viene descritta attraverso gli occhi di Lucia e di Agnese. Nel ritratto fornito, il Manzoni non manca di alternare, come è sua abitudine, note di carattere fisico con altre di carattere prettamente morale.
Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima
vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi
quasi, scomposta.
Il corpo della giovane è specchio della sua anima: sbattuta, sfiorita e scomposta sono aggettivi attribuibili direttamente alla sua condotta morale.
Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa,
cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una
bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non
d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava
sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo
scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una
contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un
rapido movimento.
Le contrazioni rapide di fronte ed i sopraccigli sono manifestazione esteriore dell’agitazione che scuote l’animo del personaggio.
Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso
alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come
per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe
argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe
creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un
non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza
attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe
potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione
familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti.
Attraverso gli occhi sono visibili tutti i conflitti interiori che contraddistinguono e rendono tragico il personaggio di Gertrude: una innata superbia, la dissimulazione colpevole della sua natura superba, il bisogno di pietà e di affetto a conforto della sua condizione ed infine un odio profondo per chiunque la circonda e le ricorda le sue disgrazie.
Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso
mancante da una lenta estenuazione.
Il suo profondo travaglio interiore si manifesta all’esterno anche attraverso la lenta estenuazione che altera un profilo altrimenti delicato e grazioso.
Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli
degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero.
Le labbra come gli occhi sono piene di espressioni (specchio dei confitti interiori) e quindi di mistero.
La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o
compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per
una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di
studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era
attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia
una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo
della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati
tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.
L’abbandono del portamento indica apertamente la mancanza di disciplina nei sensi del personaggio, divenuti oramai insofferenti verso la moderazione esteriore imposta dall’abito e quindi propensi alla stravaganza.
In questi ultimi dettagli forniti dal Manzoni si può cogliere anche un discreto accenno al coinvolgimento del personaggio in una relazioni amorosa.