Titolo: Se questo è un uomo
Autore: Primo Levi
Genere: Autobiografia
Pagine: 214
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In breve:
Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigionia, in me l’istinto della pulizia è sparito.
Mi aggiro ciondolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il mio amico quasi cinquantenne, a torso nudo, che si strofina collo e spalle con scarso esito (non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo.
Perché dovrei lavarmi? starei forse meglio di quanto sto? piacerei di più a qualcuno? vivrei un giorno, un’ora di più? Vivrei anzi di meno, perché lavarsi è un lavoro, uno spreco di energia e di calore. Non sa Steinlauf che dopo mezz’ora ai sacchi di carbone ogni differenza fra lui e me sarà scomparsa?
Più ci penso, e più mi pare che lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito estinto.
Morremo tutti, stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, a chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; o anche solo a lasciarmi vivere, a concedermi il lusso di un minuscolo ozio.
Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha terminato di lavarsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che prima teneva arrotolata fra le ginocchia e che poi infilerà, e senza interrompere l’operazione mi somministra una lezione in piena regola.
Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell’esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra ‘14-18.
Me ne duole, perché dovrò tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo.
Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.
Il libro:
Primo Levi scrisse il suo primo romanzo Se questo è un uomo dopo essere sopravvissuto al Lager di sterminio di Auschwitz. Il libro racchiude proprio i suoi ricordi, portando fino ai nostri tempi una viva testimonianza della condizione disumana ad ogni livello, fisico, morale e psichico, a cui furono costretti a vivere migliaia di deportati rinchiusi nei campi di annientamento negli anni della seconda guerra mondiale.
Il racconto di Primo Levi copre l’intero anno della sua dolorosa esperienza: dal febbraio 1944, quando fu deportato ad Auschwitz insieme con il contingente d’ebrei italiani del campo di concentramento di Fossoli, fino al 27 gennaio 1945, quando arrivò finalmente l’esercito russo a portare in salvo i pochi superstiti dei Lager, rimasti abbandonati a loro stessi dopo la ritirata dei tedeschi.
Primo Levi fu rinchiuso nel campo di annientamento di Buna-Monowitz, uno dei quarantaquattro campi satelliti di Auschwitz, in Alta Slesia, nel territorio polacco. Il nome del Lager, la Buna, deriva dalla fabbrica di gomma sintetica alla cui costruzione furono dedicati tutti i prigionieri. Fabbrica che non entrò di fatto mai in funzione e che quindi diventò per lo scrittore essa stessa immagine emblematica dell’assurdità delle fatiche cui fu costretto dai suoi crudeli carcerieri. Ma fu comunque proprio grazie al miraggio della fabbrica di plastica che riuscì a sopravvivere: laureato in chimica, venne “assunto” dopo uno sconcertante colloquio esame, e poté così trascorrere i giorni più rigidi del suo secondo inverno nel laboratorio industriale del campo, al riparo dal gelo e dai lavori pesanti.
Ad aiutarlo a rimanere vivo furono anche persone conosciute nel Lager, come Lorenzo, un operaio italiano che gli procurava segretamente ulteriore cibo ad integrazione della quotidiana minima razione di pane e zuppa di patate, cavoli e rape. Ma anche eventi particolari e fortunosi: un probabile scambio di schede durante l’approssimativa selezione dei destinati alle camere a gas gli evitò lo sterminio; la scarlattina lo costrinse a letto nell’ospedale del campo proprio nel Gennaio del 1945, quando i tedeschi abbandonarono il campo portandosi dietro tutti i prigionieri considerati abili, salvo poi sterminarli nel corso della disperata ultima marcia.
Lo scrittore sopravvissuto al Lager descrive senza morbosità e con assoluta efficacia una situazione umana inimmaginabile e per questo anche indescrivibile, per la quale non sembra bastare il comune linguaggio: per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. Levi racconta con estrema precisione e forte potere evocativo la lunga deportazione nei carri bestiame verso una meta allora ignota; il dolore per la separazione definitiva degli uomini dalle donne e dai bambini, per non rivedersi mai più; le prime vessazioni e percosse subite senza ragione; lo smarrimento di fronte ad ordini urlati in una lingua straniera; i dialoghi impossibili con gli stessi compagni di prigionia provenienti dagli stati più disparati; il duro lavoro da schiavi, ripetitivo all’infinito e in condizioni estreme; il continuo tormento della sete e della fame e la lotta per riuscire ad aggiudicarsi le razioni migliori durante la distribuzione della zuppa, unico alimento liquido disponibile; la paura di farsi trovare deboli e denutriti in occasione delle selezioni per mandare alle camere a gas i prigionieri annullati a tal punto da non poter più essere considerati abili al lavoro; la guerra tra i detenuti per la sopravvivenza; le notti angosciose nella stretta cuccetta, sempre in coppia, coi piedi del compagno vicino al volto; l’angosciante suono della banda musicale che accompagna ogni mattina i forzati al lavoro, fantomatico simbolo della geometrica follia definita meticolosamente dai tedeschi.
Inimmaginabili sono anche i personaggi che popolano il Lager. Scrisse Italo Calvino nel risvolto dell’edizione Einaudi 1958, collana «Saggi»:
Null-Achtzen, “zero-diciotto”, il compagno di lavoro che ormai è come un automa che non reagisce più e marcia senza ribellarsi verso la morte, è il tipo umano cui i più si modellano, in quel lento processo d’annientamento morale e fisico che porta inevitabilmente alle camere a gas. Suo termine antitetico è il “Prominenten”, il privilegiato, l’uomo che “s’organizza”, che riesce a trovare il modo d’aumentare il suo cibo quotidiano (grazie a furti, raggiri o commerci) di quel tanto che basta per non essere eliminato, che riesce ad acquistare una posizione di predominio sugli altri; tutte le sue facoltà sono tese a uno scopo: sopravvivere.
Primo Levi ci disegna figure che sono veri e propri personaggi: l’ingegner Alfred L. che continua a mantenere nel campo la posizione d’autorità che aveva nella vita civile (sforzandosi di mantenere sempre, anche nel campo di annientamento, quella stessa dignità che lo contraddistingueva anche da civile); quell’assurdo Elias, che pare nato nel fango del Lager e che è impossibile immaginare come uomo libero; il dottor Pannwitz, dall’agghiacciante fanatismo scientifico (è lui che “assume” Levi dopo aver svolto il colloquio esame che risulta grottesco nel contesto del campo di annientamento).
Il Lager descritto da Primo Levi appare come un mostruoso esperimento antropologico capace di rivelare cosa sia proprio della nostra natura umana e cosa sia invece acquisito, funzione dell’ambiente che ci circonda. Lo scrittore è stato capace di andare ben oltre la posizione forzata di triste spettatore e doloroso testimone diretto. Il suo sguardo ed il suo orecchio sulle vicende sono infatti quelli dello scienziato e dell’umanista. Il tono si mantiene così inflessibilmente mite. La sua è una voce che non giudica e non odia, pur non essendo disposta a perdonare gli aguzzini. Il suo intento è fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano.
È proprio grazie a questa sua incredibile capacità di analisi che Se questo è un uomo è uno specchio non solo per i carnefici ma anche per le vittime, di qualunque epoca storica.
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