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Trama:
Protagonista e voce narrante del romanzo La luna e i falò di Cesare Pavese è un quarantenne, ricco ma malinconico, che dopo avere fatto fortuna in America ritorna nel proprio paese di origine, lasciato in giovane età. Il suo vero nome non viene mai dichiarato, viene reso noto solo il suo soprannome: Anguilla. Non viene mai nemmeno nominato il paesino d’origine ma si sa solo che si trova nella valle del Belbo, vicino a Canelli, tra le colline delle Langhe in Piemonte.
Il ritorno in patria è l’occasione per ripercorrere con la memoria tutta la propria vita, partendo proprio dalle sue umilissime origini. Anguilla ritrova i luoghi, gli odori, i sapori e le abitudini della sua infanzia, per accorgersi infine che nella sostanza nulla è cambiato ma forse anche peggiorato. Le sue aspettative vengono inoltre disilluse dalla morte di tutte quelle persone che sperava di incontrare per leggere sul loro volto la sorpresa di ritrovarselo nuovamente di fronte, di trovarlo cambiato, di vedere il suo nuovo stato sociale di borghese.
Anguilla è un trovatello, un “bastardo”, un bambino senza genitori che è stato adottato ed allevato da una famiglia di poveri contadini per un interesse puramente economico: se ne prendono cura in cambio di un pagamento mensile rilasciato dall’ospedale di Alessandria. Se ne servono anche per svolgere i lavori pesanti nella loro tenuta. Fosse stato una ragazza, il loro interesse sarebbe stato quello di servirsene come servetta per le faccende di casa. Adottare un trovatello non è a quel tempo una opera di bene. Sono i più miserabili ad adottare i trovatelli .
Anguilla ricorda la sua vita a Gaminella, il vecchio casolare dove viveva la sua famiglia adottiva: Virgilia, Padrino e le due loro figlie naturali Angiolina e Giulia. Due eventi sfortunati, la morte della moglie e la distruzione del raccolto a causa di una grandinata, costrinsero Padrino a vendere la tenuta per trasferirsi con le due ragazze a Cossano per farle maritare. Alla morte di Angiolina e Giulia, l’uomo verrà letteralmente buttato in strada dai due generi e dovrà mendicare fino al giorno della sua morte.
Il protagonista venne invece mandato a lavorare presso la grande fattoria della Mora, proprietà di sor Matteo. Anguilla racconta così le vicende delle sue tre figlie Irene, Silvia e Santina, che il ragazzo aveva potuto osservare solo da lontano vista la sua diversa estrazione sociale (era semplicemente uno dei servitori). Se inizialmente Anguilla era rimasto colpito dalle ragazze e le guardava in adorazione, rapito dalla loro bellezza, con il passare degli anni iniziò invece a farsi largo la compassione per le loro tristi vicende. Nessuna delle tre ragazza risulterà vincitrice nella vita: la bionda Irene finirà per sposare uno spiantato, dedito al gioco, che la picchia; la sensuale Silvia morirà in seguito ad un aborto voluto per evitare di dare alla luce un “bastardo”, abbandonata dal dongiovanni di provincia che non ne voleva sapere di sposarla.
Dopo il periodo della Mora, terminato il servizio militare, Anguilla si trasferì a Genova e fu a causa della minaccia di persecuzione da parte dei fascisti per la sua attività sovversiva, non per il desiderio di arricchirsi, che si imbarcò per il nuovo continente.
Della sua vita in America ricorda invece i diversi amori mai appaganti ed i diversi lavori (tra i quali quello di contrabbandiere di alcolici nel periodo del proibizionismo) svolti ogni volta in una città differente in un perpetuo viaggio alla ricerca di una meta definitiva.
Ritornato al paese dove ha vissuto la sua giovinezza Anguilla ritrova quindi solamente il suo vecchio amico Nuto, che da giovane era sempre stato la sua figura di riferimento: il ragazzo suonava il clarino nella banda in occasioni delle diverse feste che si tenevano nei paesi intorno, aveva visto di più del “mondo”, parlava come un adulto e sapeva come comportarsi come un adulto in qualunque situazione. Ora ha abbandonato la musica ed è falegname nella bottega ereditata dal padre. Nuto è cambiato ma è rimasta viva in lui la convinzione che sia necessario riscattarsi dalla profonda ingiustizia del mondo.
Sarà l’amico ritrovato a raccontare infine ad Anguilla la storia di Santina, uccisa e poi bruciata dai partigiani dopo che era stato scoperto il suo doppio gioco con i fascisti.
Il protagonista fa anche la conoscenza di Cinto, un bambino storpio di dieci anni figlio di Valino, il mezzadro che ha in gestione la Gaminella. La famiglia del ragazzo è ancora più povera e disgraziata di quella che era stata la famiglia di Anguilla: non sono nemmeno proprietari della piccola tenuta ma devono dividere ogni raccolto con la proprietaria. Valino sfoga tutta la sua disperazione per la sua misera condizione picchiando e maltrattando il figlio, le donne di case ed anche il loro cane.
Un giorno, esasperato dalla gravosa riscossione dei prodotti frutto del proprio lavoro, l’uomo uccide Rosina, la sua convivente, dà fuoco al capanno uccidendo viva la madre di lei e si impicca infine ad un nocciolo. Cinto è l’unico a riuscire a salvarsi alla furia dell’uomo.
Anguilla si è affezionato al ragazzo perché in lui rivede sé stesso da bambino. Nonostante il disappunto dell’amico Nuto, tenta anche di mettergli in testa l’idea di lasciare il paese per cercare fortuna lontano, seguendo il suo esempio (il protagonista stesso dichiara più volte di essere disposto a rifarlo ancora, ritrovandosi nelle condizioni in cui aveva dovuto vivere). Il protagonista convince infine Nuto a prendere Cinto come apprendista e dare quindi anche a lui una possibilità di riscatto.
Commento e analisi:
“Un paese ci vuole”: le radici, il ritorno. Fin dalle prime pagine del romanzo si palesano due dei temi fondamentali del romanzo: l’esigenza del recupero della radici (spesso frustrata) e il ritorno al luogo e al tempo di origine (anche questo irrecuperabile). Il protagonista, Anguilla, fa ritorno alla sua terra, le Langhe, dopo l’esperienza in America, uno dei miti letterari pavesiani. Siamo nel secondo dopoguerra e le colline delle Langhe sono state teatro di un’aspra guerra dopo l’8 settembre del 1943, uno scontro senza quartiere tra le brigate partigiane, prevalentemente animate e guidate da membri del Partito comunista, all’epoca ancora clandestino, e le forze nazifasciste che avevano formalmente il controllo del Nord Italia. Aspra guerra raccontata in modo puntuale da Beppe Fenoglio nei sui romanzi. Anguilla è un orfano che tornando nella sua terra cerca di rinsaldare le sue radici, tentativo destinato a fallire viste le premesse iniziali: la condizione di orfano rimanda immediatamente al tema dello sradicamento, del senza radici, per cui fin dalle prime pagine si assiste a un’impresa destinata alla sconfitta. Questo tema si presenta in tutta la sue evidenza e mette in moto un viaggio di andata, il cui ritorno non è garantito sebbene il rapporto con i luoghi sembrerebbe naturale, evidente: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Il problema di Anguilla tuttavia non è confinato al solo luogo, allo spazio, ma al tempo: quando fa ritorno a Santo Stefano Belbo (che per altro è il luogo di nascita dell’autore) la vita non è la stessa di quando è partito, molti abitanti sono morti e le stesse colline hanno risentito fortemente dello spietato passaggio della storia.
La Resistenza, la lotta sociale, la rottura dell’equilibrio iniziale., Ciò che interessa a Pavese è quindi raccontare la storia di uno smarrimento, di uno sradicamento, di un ritorno impossibile, insomma indugiare sul destino di un uomo, mostrarne il disagio dell’esistenza. La Resistenza e le ferite che la guerra hanno lasciato sulle vite degli uomini e dei luoghi sono quindi simbolo della storia e strumenti per mostrare l’impossibilità del ritorno, in una cornice che richiama il racconto epico, il mito, subordinati alle vicende di un destino individuale. Pavese è interessato a un’indagine storico-esistenziale più che alle questioni storiche e socio-economiche del luogo, che invece attraggono maggiormente il corregionale Fenoglio. Tuttavia della Resistenza Pavese riesce a raccontare con straordinaria partecipazione la disperata lotta, le implicazioni sugli abitanti delle colline, spesso semplici pedine di un gioco più grande di loro e non sempre comprensibile. La guerra e la successiva lotta sociale, inevitabile dopo i funesti anni della guerra, rendono impossibile la ricostituzione dell’equilibrio iniziale: le colline delle Langhe non sono come Anguilla le aveva lasciate e per questo motivo il protagonista decide di andarsene per sempre.
Il ruolo di Nuto. L’unico contatto tra il passato di Anguilla e il presente di un mondo a lui ormai irriconoscibile è Nuto, il clarinettista cui il narratore affida il compito di raccontare al protagonista le tristi vicende delle lotte partigiane e la fine tragica di molte persone che avevano contornato l’infanzia del protagonista. Nuto racconta con pietà e partecipazione e rappresenta il nucleo incorrotto di quei luoghi, l’unico che pur tra alterne vicende è riuscito a resistere e a rimanere lì, in un gesto di resistenza estremo. Per certi versi è l’alter ego di Anguilla, il protagonista-narratore dell’intera storia: infatti mentre Anguilla è simbolo dello sradicamento, Nuto è simbolo del radicamento, è il punto di contatto tra passato e presente: è quindi ciò che resta nel tempo.
Lo stile: tra realismo e simbolo. Come si evince dal titolo, Pavese non si appiattisce su un realismo privo di implicazioni, anzi concependo un racconto in prima persona prende le distanze da un’oggettività che si appassiona unicamente al contesto storico-sociale del mondo che racconta, per muoversi su terreni esistenziali, per dialogare con il mito e le componenti simboliche e antropologiche. Lo stile di conseguenza segue da vicino il parlato e le formule della realtà contadina delle Langhe, in una mimesi che cerca di restituire la naturalezza di quel mondo, ma nel contempo carica di significato le usanze, le tradizioni, i riti e gli archetipi della sua gente, portandoli in uno spazio mitico e simbolico che trascende la realtà per indagarne più da vicino i tratti essenziali al di là del fatto storico.