I grandi romanzi: | Le poesie: |
– LA LUNA E I FALO’ | – VERRA’ LA MORTE E AVRA’ I TUOI OCCHI |
Tra il fuoco della storia e il travaglio interiore. Cesare Pavese è tra gli scrittori più significativi del secondo Novecento italiano per la capacità di coniugare le piccole esperienze della “microstoria”, quelle di aree marginali, della provincia e della campagna, all’irrompere della grande storia che turba l’equilibrio di piccole vite. I suoi romanzi e le sue poesie infatti legano il tema privato, il travaglio interiore, al grande dramma della Seconda guerra mondiale, della Resistenza e del conflitto sociale che si stava aprendo in Italia nell’immediato dopoguerra. Formatosi nella Torino antifascista degli anni Venti e Trenta, fu mandato al confino dal regime fascista per opera di propaganda. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si rifugiò sulle colline del Monferrato, ma non prese parte alla Resistenza, motivo che lo segnerà per tutti gli anni a seguire, vissuto come una grave mancanza e con inestirpabili sensi di colpa. Iscritto al PCI e direttore editoriale per la casa editrice Einaudi, ha vissuto personalmente una forte lacerazione tra il personaggio pubblico, dedito all’impegno editoriale e politico, e un tormentato disagio interiore, dovuto a sensi di colpa e di inadeguatezza, che lo portarono al suicidio nel 1950.
La Resistenza, la collina e l’origine perduta. Come molti scrittori affermatisi nell’immediato secondo dopoguerra, Pavese vive l’esperienza della Resistenza partigiana non solo come la liberazione dalla tragedia della guerra e dalla dittatura fascista, ma come una vera e propria palingenesi, un rinnovamento da cui fondare un mondo nuovo, libero, dove la cultura finalmente si identifichi con la società in modo da offrire uno spazio critico e insieme vitale per gli uomini, un luogo dove non si venga più umiliati e offesi, ma dove l’uomo è al centro, libero dalle sofferenze e dal dominio dei potenti. In Pavese tuttavia la Resistenza aleggia come un’occasione mancata, una grave colpa per non avervi preso attivamente parte: la realtà che egli tratteggia nei suoi maggiori romanzi è ancora lacerata da dissidi e porta i segni di una lotta senza quartiere che ha distrutto il precedente equilibrio anziché offrirne uno nuovo e gli eroi dei suoi romanzi sono in realtà uomini soli, talvolta apatici e indifferenti alla tragedia della guerra (è il caso di Corrado ne La casa in collina), uomini che hanno vissuto il trauma del distacco (come Anguilla ne La luna e i falò) e al momento del ritorno al casa si accorgono che nulla più appartiene a quel mondo che avevano vissuto da ragazzi. La collina, teatro di quasi tutte le vicende nate dalla penna di Pavese, è un nido perduto, un luogo mitico, un rifugio che ha però perso i tratti dell’eden, caratterizzanti il periodo precedente. L’irrompere della storia e i travagli interiori dei personaggi, che spesso subiscono la maturazione come un trauma, cancella tutto quello che era prima e quel luogo originario e incorrotto si rivela definitivamente perdut0.
Il mito e l’epos. Lo sguardo di Pavese indaga il fondo della realtà, prova a rintracciare quel luogo mitico – cioè l’infanzia, la realtà contadina precedente la guerra e, soprattutto, la collina che simboleggia questi luoghi e questo tempo in un equilibrio naturale –, quella condizione incorrotta prima che vengano spazzato via dalla storia e dalle esperienze dell’uomo ormai adulto: questo è il compito della letteratura. La ciclicità dei gesti e delle azioni di un mondo ancora contadino, il rapporto tra la natura selvaggia e incorrotta e il mondo civilizzato, la superstizione, il tabù, il proibito diventano dei territori da indagare per recuperare la verità delle cose, al di sotto della superficie della storia. In questo senso va inteso il valore mitico della collina come origine perduta. Pavese, forte della sua attività editoriale che lo porta a curare una collana di antropologia, si interessa di miti e religioni, simboli e archetipi, studia Jung, Malinowski, Propp, letture che avranno una grande influenza nella sua narrativa: è da questo percorso che nascono la ripresa del mito, che emerge principalmente dai Dialoghi con Leucò, l’urgenza dell’epos, del racconto quasi ancestrale, che sostanziano opere come La luna e i falò, fin dal titolo dichiaratamente simbolico. Altra fonte di ispirazione per Pavese è la letteratura americana, la grande narrativa che proprio in quegli anni, e in buona parte grazie al Pavese traduttore, arriva in Italia portando con sé tratti nuovi che risulteranno fondamentali per molti scrittori italiani degli anni a venire: l’interesse per i problemi concreti della gente, l’emarginazione sociale, il piglio realistico. Per tutti questi motivi è fuorviante collocare Pavese nel solco della letteratura neorealista: la ripresa del mito, l’indagine degli archetipi, il disagio esistenziale dei suoi personaggi fanno della sua letteratura un’opera ben più complessa.
Lo stile realistico, il simbolo e la mimesi del parlato. L’influenza della letteratura americana influenza anche il Pavese poeta, niente affatto inferiore al narratore. L’esordio di Lavorare stanca (1936) si pone in netta antitesi con l’andamento della poesia italiana di quegli anni: Pavese predilige un verso lungo, narrativo, e un dettato più comunicativo e semplice, lontano dagli orpelli della poesia ermetica. Oltre che conseguenza delle letture di poeti americani, come Walt Whitman, questa scelta nasce dall’esigenza di dare valore a un mondo inclusivo, aperto alle esperienze di tutti, lontano dunque dall’arroccamento dei poeti nella loro torre d’avorio fatta di parole e versi inavvicinabili. Nelle poesie postume, raccolte in parte con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951), Pavese si abbandona a un maggiore lirismo (le poesie nascono in seguito all’innamoramento per l’attrice americana Constance Dowling): le liriche risentono inoltre dei motivi e degli archetipi che caratterizzano anche l’ultima stagione narrativa di Pavese: la collina, la vigna, il sangue, la morte, in un impianto che fonde il realismo con il simbolo in un fascinoso e misterioso connubio.
La semplificazione sintattica, l’inserzione di espressioni gergali e dialettali, l’andamento che spesso segue il parlato caratterizzano invece l’opera in prosa, per esigenze di realismo e per riprodurre fedelmente la vita e gli ambienti dei suoi personaggi.