Parafrasi del Canto I dell’Inferno – La selva oscura. L’incontro con la lince (la lussuria), il leone (la superbia) e la lupa (l’avarizia), e l’intervento finale di Virgilio, che pronostica l’arrivo del veltro e mette in salvo il poeta.
Leggi il testo del canto 1 (I) dell’Inferno di Dante
L’opera di Dante inizia con i famosi versi “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita“, ad esprimere lo smarrimento provato dal poeta ad ormai trentacinque anni, a causa di un eccessivo amore per i beni terreni. Il poeta confessa così di essere stato nel peccato (nel sonno), di aver perso la via della verità e della giustizia, e confessa la sua profonda paura di allora, tale da farlo tremare anche a posteriori.
La selva, il colle e ed il cielo rappresentano quindi rispettivamente l’inferno, il purgatorio ed il paradiso.
La notte tra il giovedì ed il venerdì santo (8 aprile 1300) Dante si perde in una selva. Il mattino dopo raggiungere un colle, la paura iniziale diviene speranza, e subito si incammina per raggiungerne la sua cima illuminata dal sole.
Durante la salita il poeta incontra tre animali selvaggi, a simboleggiare altrettanti vizi capitali: una lince (la lussuria), un leone (la superbia) ed una lupa (l’avarizia). Le tre fiere, soprattutto la lupa, riescono quasi a ricacciare indietro il poeta verso la selva; compare però Virgilio ed interviene in suo aiuto.
Virgilio comunica a Dante che dovrà percorrere un’altra via, dicendo di non poter nulla contro la lupa e mantenendo quindi viva la paura verso la bestia.
Viene pronosticato anche l’arrivo di un nemico della lupa (simboleggiato con il veltro, cane da caccia), che gli darà la caccia in ogni villaggio, per poi spedirla nuovamente nell’inferno.
Virgilio si propone a Dante come guida e anticipa al poeta il suo viaggio attraverso l’inferno, per poi passare nel purgatorio ed infine nel paradiso con un’altra guida (Beatrice), non potendo Virgilio entrarci in quanto pagano. Dante prega la sua guida di salvarlo dalla lupa ed i due si mettono quindi subito in viaggio.
Nel mezzo del cammino della mia vita, a ormai 35 anni,
mi ritrovai in una selva scura
poiché avevo smarrito la via della giustizia.
Descrivere quella selva è cosa dura, penosa,
quanto selvaggia, intricata ed impraticabile fosse,
tanto che il solo suo pensiero mi rinnova la paura d’allora!
Causa tanta amarezza, poco meno di quella causata dalla morte;
Ma per parlar del bene che vi trovai,
dirò delle altre cose che io vidi là dentro.
Io non so ridire con precisione come vi entrai,
tanto ero pieno di sonno in quel momento, di incoscienza,
in cui abbandonai la via della giustizia.
Ma dopo che fui giunto ai piedi di un colle,
al termine di quella valle oscura,
che mi aveva afflitto di paura il cuore,
guardai in alto e vidi le spalle del colle, i suoi alti pendii,
vestiti, illuminati già dai raggi del Sole che conduce
ogni essere umano lungo la via, la vita, che a ciascuno spetta.
Allora mi si calmò un poco la paura,
che nel profondo del cuore mi era durata
tutta quella notte trascorsa con tanta pietosa angoscia.
E come il naufrago, colui che con respiro affannoso,
uscito sulla riva fuori dagli abissi marini,
si volge indietro verso l’acqua infida, pericolosa,
così l’anima mia, che ancor fuggiva per lo spavento,
si volse indietro a riguardare il percorso compiuto,
che non lasciò mai prima di allora superstite.
Poi che ebbi riposato il corpo stanco,
ripresi la via lungo quel lieve pendio deserto,
così che il piede sicuro ere sempre quello più in basso.
Ed ecco, quasi al cominciare della salita, apparire
una lince (la lussuria) agile e molto rapida nei movimenti,
coperta da un manto di pelliccia maculato;
e non smetteva di starmi di fronte,
anzi cercava di impedire a tal punto il mio cammino,
che fui più volte sul punto di tornare indietro.
Era il principio del mattino, tempo
in cui il sole saliva in cielo con quelle stelle, l’Ariete,
che erano con lui quando l’Amore divino e creatore
impresse il primo moto a quelle belle cose celesti;
così che avevo buon motivo di sperare
riguardo a quella bestia dal variopinto,
grazie all’ora del mattino ed alla dolce stagione primaverile;
ma la mia speranza non fu tanto salda da non spaventarmi
per la vista di un Leone (la superbia) che mi apparve dinanzi.
Questa belva sembrava avanzare contro di me
a testa alta e spinto da una fame rabbiosa,
tanto che sembrava che anche l’aria tremasse per paura.
E la vista di una lupa (l’avarizia) che di tutti i desideri più
ardenti sembrava carica nella sua magrezza,
e molti popoli aveva già fatto vivere nel dolore,
questa lupa mi oppresse tanto l’anima,
con la paura causata dalla sua vista, che persi
la speranza di proseguire nell’ascesa verso la cima.
E come l’avaro, colui che è tutto voglioso di acquistare,
giunto il tempo in cui perde tutto ciò che aveva acquistato,
piange ed ogni suo pensiero non fa che rattristarlo;
tale mi rese quella bestia irrequieta,
che, venendo verso di me, a poco a poco
mi spingeva nuovamente verso l’oscura selva.
Mentre correvo rovinosamente verso la valle,
dinanzi agli occhi mi comparve un individuo
la cui voce sembrava essere divenuta debole per il lungo silenzio.
Quando vidi costui in quella grande solitudine,
“Abbi pietà di me”, gridai a lui, “qualunque cosa tu sia,
o ombra, spirito, o uomo in carne ed ossa!”
Mi rispose lui: “Non sono un uomo, ma un uomo sono stato,
ed i miei genitori furono lombardi,
entrambi di origine mantovana, di Mantova.
Nacqui al tempo di Giulio Cesare, sebbene troppo tardi,
e vissi a Roma al tempo del buon Augusto,
quando ancora venivano adorati déi falsi e bugiardi.
In vita sono stato un poeta ed ho cantato le gesta del devoto
Enea, figlio di Anchise, che giunse in Italia da Troia
dopo che la superba Ilio venne incendiata.
Ma tu perché stai torno alla selva, causa di tanto danno?
Perché non sali lungo il delizioso monte
che è origine e causa di ogni felicità?
“Tu sei allora il famoso Virgilio, la fonte
dalla quale fluisce il grande fiume dell’eloquenza?”
Risposi io a lui tenendo la fronte bassa.
“O onore e luce degli altri poeti,
sia dia mia utilità il lungo studio ed il grande amore
che mi spinse a ricercare le tue opere.
Tu sei il mio maestro ed il mio autore preferito,
se tu solo colui dal quale ho appreso
il mio bello stile che mi dato tanta fama.
Guarda la bestia che mi ha fatto volgere indietro;
aiutami contro di lei, famoso saggio,
perché lei mi fa tremare tutto di paura.”
“Conviene che percorri un’altra via”,
rispose Virgilio, vedendo che piangevo,
“se vuoi sopravvivere da questo luogo selvaggio;
perché questa bestia, la lupa, a causa della quale tu gridi
di paura, non lascia che nessuno passi attraverso la sua via,
anzi, tanto si oppone da uccidere chiunque ci tenti;
ed ha una natura tanto malvagia e cattiva,
che mai soddisfa la propria ingordigia,
e dopo ogni pasto ha più fame di prima.
Molti sono gli animali con i quali si unisce,
e saranno ancora più numerosi finché il veltro, veloce cane da
caccia, non arriverà e la fare morire con grande dolore fisico.
Questo veltro non si nutrirà né di potere e né di denaro,
ma di sapienza, amore e virtù,
ed avrà origini da umili e bassi parenti.
Egli sarà la salvezza di quella umile Italia
per la quale morì la vergine Camilla,
Eurialo, Turno e Niso a causa delle ferite.
Questo veltro darà la caccia alla lupa in ogni villaggio,
fino a ché non l’avrà fatta tornare nell’inferno,
là dove l’invidia l’ha in precedenza liberata e scatenata.
Perciò io penso e giudico che per te sia meglio
che tu mi segua, io sarò la tua guida,
e ti condurrò via da qui attraverso i regni dell’eternità;
nei quali ascoltai le disperate grida acute dei dannati,
vedrai gli spiriti afflitti sin dai tempi più antichi,
ciascuno dei quali chiede con grida la seconda morte;
vedrai quindi, nel purgatorio, coloro che sono contenti
di stare nel fuoco, perché sperano di salire,
quando sarà il momento, tra le anime beate del paradiso.
Tra le quali poi, se tu vorrai salire in paradiso,
ci sarà un anima più degna di me a guidarti:
ti lascerò con lei prima di lasciarti;
perché quell’imperatore che regna là su in paradiso
essendo stato io, pagano, ribelle alla sua legge,
non vuole che io salga nella sua città.
Domina in ogni luogo e là su comanda;
là si trova la sua città e il suo sublime trono:
oh quanto è felice chi da lui viene ammesso lassù in paradiso!”
Dissi io a Virgilio: “Poeta, io ti prego,
in nome di quel Dio che tu non conoscesti,
affinché possa scampare da questo male e da altri peggiori,
che tu mi conduca in quei posti che ha ora descritto,
così che io possa vedere la porta custodita da san Pietro
e quelle persone che tu dici essere tanto tristi.”
A quel punto Virgilio si mosse e lo seguii.
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