Parafrasi del Canto XV del Paradiso – Dante incontra Cacciaguida, capostipite della sua famiglia, che gli racconta la sua storia e quindi gli usi e costumi della Firenze antica.
Leggi il testo del canto 15 (XV) del Paradiso di Dante
La volontà di compiere del bene, nella quale si manifesta
sempre l’amore vero che è rivolto al sommo bene,
così come l’avidità, il falso amore, si manifesta nella volontà rivolta verso al male,
impose il silenzio a quel dolce suono, a quel coro,
e fece posare quelle sante voci, simili a corde
di uno strumento suonato dalla potenza di Dio.
Come potrebbero non ascoltare le devote preghiere degli uomini
quelle anime sante che, per spingermi
a porre le mie domande, tacquero all’unisono?
È giusto che non veda la fine della propria sofferenza
chi, per amore dei beni mondani, destinati a terminare,
si privi di quell’amore.
Come attraverso il cielo notturno sereno e limpido passa ogni
tanto, all’improvviso, un fuoco, una stella cadente, spingendo
gli occhi, prima fissi, a muoversi per seguirne il movimento,
e sembra una stella che stia cambiando posizione,
se non per il fatto che nel punto in cui si è acceso
nessuna stella è scomparsa, e la sua luce dura poco:
allo stesso modo dal braccio destro
di quella Croce, si mosse ai piedi di essa una delle stelle
della costellazione che risplende nel Paradiso;
Quella stella, simile ad una gemma, non si staccò da quel
braccio, ma si mosse in orizzontale e verticale, mostrandosi
come un fuoco acceso dietro ad una lastra di alabastro.
Non meno premurosa si mostrò l’anima di Anchise,
se meritano fiducia le parole di Virgilio, il nostro maggior poeta,
quando si accorse della presenza del figlio nei Campi Elisi.
“Oh sangue del mio sangue, oh grazia divina
scenda in abbondanza sull’uomo, a chi mai, come per te,
furono aperte per due volte le porte del cielo?”.
Così parlò quell’anima luminosa: per cui io rivolsi a lui la mia
l’attenzione; poi rivolsi il mio sguardo verso Beatrice,
e per l’uno e per l’altra rimasi meravigliato;
perché dentro agli occhi di lei risplendeva un sorriso
tale che io credei di giungere al culmine estremo
della mia beatitudine e del mio paradiso.
Quindi quell’anima luminosa, piacevole a sentirsi ed a vedersi,
aggiunse al suo primo discorso altre cose
tanto profonde, oscure, da non poter essere da me comprese;
non per sua scelta parlò in modo a me incomprensibile
ma per necessità, poiché i suoi concetti, i suoi pensieri,
superavano il limite dell’intelletto umano.
E quando l’ardore del suo affetto
si fu sfogato, così che il suo linguaggio tornò
nel limite del nostro intelletto, tornò comprensibile,
la prima cosa che riuscii a capire
fu: “Sia benedetto Dio, unico e triplice,
che con la mia stirpe si mostra tanto cortese!”
Continuò quindi a dire: “Un tanto caro e tanto atteso desiderio,
accesosi in me leggendo della tua venuta nella mente divina,
nella quale nulla viene mai né aggiunto né tolto,
hai tu realizzato, figlio mio, venendo qui dentro a questa luce
dalla quale ti parlo, grazie all’aiuto di lei, Beatrice, che ti fornì
le ali per un simile volo, i mezzi per una simile impresa.
Tu credi che a me i tuoi pensieri giungano direttamente
da colui che è principio di ogni cosa, Dio, così come dalla
conoscenza dell’unità deriva quella di tutti gli altri numeri;
e pertanto non mi esponi il tuo desiderio di sapere chi io sia
e perché mi mostri verso te tanto più ardente di gioia
di qualunque altra tra queste anime beate.
Ciò che credi è corretto; dal momento che tutti i beati,
qualunque sia la loro condizione, osservano lo specchio di Dio,
nel quale appare il tuo pensiero prima ancora che venga formulato;
ma perché la legge della carità divina, sulla quale io veglio
continuamente e che mi appaga
con il desiderio di sé, venga meglio attuata,
la tua ferma voce, forte e lieta,
esprima la tua volontà, esprima il tuo desiderio,
in risposta al quale ho già pronte le mie parole!”
Mi rivolsi a Beatrice e lei comprese ciò che stavo per dire
prima ancora che iniziassi a parlare, mi sorrise e con un cenno
di assenso diede nuovo vigore alla mia già viva volontà.
Cominciai poi a parlare così: “Il sentimento e l’intelligenza,
non appena il perfetto equilibrio di Dio vi fu manifesto,
assunsero lo stesso peso per voi anime beate,
poiché il sole, Dio, che vi illuminò e vi scaldò, nel calore (della
carità) e nella luce (della sapienza) è tanto simile, che qualunque
altra uguaglianza sarebbe inadeguata per descriverlo.
Ma negli uomini la volontà e gli strumenti per esprimerla,
per i motivi che sono a voi ben noti,
hanno ali di diversa potenza, sono tanto differenti,
perciò io, in quanto mortale, riconosco di possedere questa
disuguaglianza, e riesco quindi a mostrarmi riconoscente
solo con il cuore per la tua calorosa accoglienza.
Ti supplico quindi, oh preziosa gemma
che arricchisci questo prezioso gioiello, affinché
tu soddisfi il mio forte desiderio di conoscere il tuo nome.”
“O mio ramo, mio discendente, del quale mi sono compiaciuto
anche quando aspettavo la tua venuta, io sono la tua radice, il
capostipite della tua famiglia”: questa il principio della sua risposta.
Poi mi disse: “Colui dal quale deriva
il nome della tua famiglia e che è da oltre cent’anni
nella prima cornice del monte del Purgatorio,
fu mio figlio e fu il tuo bisavolo:
è quindi giusto che la sua lunga fatica, la sua lunga penitenza,
venga abbreviata con le tue preghiere.
Firenze, dentro la cerchia delle sue mura antiche, da cui sente
ancora il campanile della Badia battere la terza e nona ora,
viveva al mio tempo in pace, moderata ed onesta.
Le donne non indossavano ancora catenelle, corone,
gonne ricamate o cinture
ben più vistose di loro stesse.
Non faceva ancora paura ai padri la nascita di una figlia
femmina, poiché l’età e la dote necessarie per maritarla
non eccedevano la giusta misura da una e dall’altra parte (troppo presto ed a caro prezzo).
Non c’erano a Firenze case famigliari poco popolate;
non era ancora giunto il re Sardanapalo a mostrare la lussuria,
a mostrare ciò che in una camera poteva essere fatto.
Lo sfarzo visibile a Roma da Monte Mario non era ancora
inferiore a quello visibile a Firenze dal monte Uccellatoio; così
come lo ha superato nell’ascesa lo supererà però anche nella decadenza.
Ho visto con i miei occhi lo stimato Bellincion Berti andare in
giro con indosso una cintura di cuoio ed osso, e sua moglie
allontanarsi da uno specchio senza essersi truccata il viso;
e vidi le famiglie guelfe dei Nerli e dei Vecchietti
essere contente anche indosso solo pelli non foderate,
e le loro donne essere lavorare alla filatura della lana.
Fortunate loro! Ognuna era certa di
essere sepolta in patria, e nessuna era stata ancora
abbandonata dal marito per un viaggio d’affari in Francia.
Alcune stavano a vegliare la culla del proprio figlio,
e, per consolarlo, usavano quel linguaggio
che un tempo divertiva i padri e le madri, ed ora solo le balie;
altre, lavorando alla filatura,
raccontavano alle proprie ancelle
la storia dei Troiani, di Fiesole e di Roma.
Ci si sarebbe a quel tempo molto meravigliati della disonestà
di una Cianghella o di un Lapo Salterello, come ora ci si
sorprenderebbe dell’onestà di un Cincinnato o di una Cornelia.
In mezzo ad una così tranquillo e così lieto
vivere dei cittadini, in mezzo ad una così onesta
cittadinanza, in una così cara dimora,
vidi la luce con mia madre che invocava la Vergine Maria
tra le urla del parto; e nel vostro antico Battistero
divenni cristiano e presi il nome di Cacciaguida.
I miei fratelli erano chiamati Moronto ed Eliseo;
mia moglie veniva dalla Val Padana,
e così, tramite lei, si arrivò quindi al tuo cognome.
Seguii sul campo di battaglia l’imperatore Corrado;
ed egli mi fece suo cavaliere,
tanto acquistai la sua grazia con i buoni servizi a lui resi.
Lo segui nella guerra contro l’ingiustizia di quella religione
maomettana, il cui popolo usurpa, per colpa dei pontefici,
quello che per giustizia spetterebbe a voi cristiani.
Laggiù fui ucciso da quegli infedeli,
fui sciolto dai legami con il mondo ingannevole,
che danneggia molte anime con l’amore per i suoi falsi piaceri;
morto in nome della fede cristiana, raggiunsi quindi la pace del Paradiso.
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