Parafrasi del Canto XVIII dell’Inferno – Dante e Virgilio visitano l’ottavo cerchio, quello dei fraudolenti. Passata la prima bolgia, dei ruffiani, dove il sommo poeta parla con Venedico Caccianemico e vede Giasone, i due raggiungono la seconda bolgia, dove gli adulatori sono immersi completamente nelle feci.
Leggi il testo del canto 18 (XVIII) dell’Inferno di Dante
C’è una regione dell’Inferno che è chiamata Malebolge,
fatta tutta di pietra del colore del ferro,
e cinta tutt’intorno da una parete della stessa natura.
Nel centro esatto di quel campo maledetto
si apre un pozzo molto largo e profondo,
della cui funzione parlerò più avanti, quando sarà il momento.
Rimane pertanto uno spazio circolare
tra il pozzo ed i piedi dell’alta parete di roccia,
ed ha il fondo diviso in dieci fossati distinti.
Come, dove a difesa delle mura
ci sono molti fossati a cingere i castelli
appare l’area dove quei fossati si trovano,
allo stesso modo apparivano laggiù quelle valli distinte;
e come alle porte di tali fortezze
ci sono dei ponticelli che portano da una riva all’altra,
allo stesso modo là nell’Inferno dai piedi della roccia
partivano degli scogli che attraversavano argini e fossati
fino a raggiungere quel pozzo che li termina e raccoglie.
In questo luogo, scesi a terra in malo modo dalla schiena
di Gerione, ci trovammo infine; ed il poeta virgilio
prese a camminare verso sinistra ed io mi mossi dietro a lui.
Alla mia destra vidi un nuovo spettacolo doloroso,
tormenti e frustatori che non avevo mai visto prima,
e che riempivano da ogni parte la prima bolgia.
Sul fondo delle valli stavano nudi i peccatori: da metà del fossato
fino a dove ci trovavamo noi ci venivano incontro, nell’altra metà
procedevano invece nella nostra stessa direzione, ma con passi più veloci,
come i romani, per il gran numero di persone accorse,
nell’anno del giubileo, lungo il punte sul tevere
avevo trovato il modo di fare passare tutti,
su un lato procedevano tutti tenendo la fronte
verso Castel Sant’Angelo per arrivare a San Pietro;
mentre dall’altra parte procedeva la gente diretta verso il Monte Giordano.
Dall’una e dall’altra parte del fossato, sopra quella triste roccia
vidi demoni cornuti con in mano grandi fruste,
con le quali percuotevano con crudeltà le schiene dei dannati.
Ahi come facevano a loro sollevare da terra i calcagni
già alla prima frustata! Nessuno certo
aspettava la secondo o la terza prima di muoversi.
Mentre io procedevo, i miei occhi si scontrarono improvvisamente
con quelli di una anima dannata; ed io subito dissi a me stesso:
“Non è certo la prima volta che vedo costui”;
perciò mi fermai per riuscire ad osservarlo meglio:
ed anche il mio buon maestro rimase fermo insieme a me,
ed accensentì affinché tornassi un poco indietro sui miei passi.
Quell’anima percossa dalle frustate credette di potersi nascondere
abbassando il viso a terra; ma gli servì a poco questo suo gesto,
perché io dissi: “Tu che rivolgi un tuo sguardo a terra,
se i lienamenti del tuo viso non sono stati alterati,
devi essere Venedico Caccianemico:
ma cosa ti ha portato qui ad assaporare una salsa tanto piccante?”
E lui mi rispose: “Te lo confesso mal volentieri; e mi costringe
a farlo il sentire nelle tue parole che sei già informato,
parole che mi richiamano alla memoria il tempo passato.
Io fui colui che la Ghisolabella
convinse a soddisfare le voglie del Marchese,
qualunque siano le versioni che si raccontano di quell’osceno fatto.
E non sono l’unico bolognese a piangere in questa bolgia;
anzi, questo luogo ne è talmente pieno,
che non ci sono ora al mondo altrettante lingue capaci
a dire “sia” tra Savena ed il Reno;
e se vuoi avere un segno o una testimonianza di quanto dico
riporta alla mente la nostra naturale avarizia.”
Mentre stava ancora parlando, un demonio lo colpì
con la sua frusta, e disse: “Vattene
ruffiano! Qui non ci sono povere donne da ingannare.”
Io mi ricongiunsi nuovamente alla mia guida Virgilio;
e poi, dopo aver fatto pochi passi, ci trovammo
vicino ad uno scoglio che usciva dal ripido bordo.
Riuscimmo a salirci sopra abbastanza facilmente; e girammo a destra
procedendo sopra il dorso scheggiato di quel ponte, allontanandoci
così da quelle anime costrette a correre per l’eternità in cerchio.
Raggiunto il punto in cui sovrasta il vuoto sottostante
per lasciare lo spazio necessario a procedere alle anime frustate,
il mio maestro disse: “Fermati adesso, e lasciati ferire
lo sguardo dall’aspetto di questi altri man nati,
la faccia dei quali non hai ancora potuto vedere
dal momento che procedevano nella nostra stessa direzione.”
Stando su quel vecchio ponte guardavamo la fila di dannati
che veniva verso di noi dall’altro lato della bolgia,
e che, come la prima, era tenuta in movimento da continue frustate.
Ed il mio buon maestro, senza che io dovessi domandare,
mi disse: “Guarda quell’uomo alto che viene verso di noi, e non sembra
versare nemmeno una lacrima a dispetto del gran dolore che prova:
tanto del suo aspetto regale è riuscito ancora a conservare!
Quell’anima è Giasone, che con bravura ed intelligenza
riuscì a sottrarre il vello d’oro agli abitanti della Colchide.
Passò nel suo viaggio per l’isola di Lenno,
dove le donne coraggiose e spietate
avevano ucciso tutti i loro mariti.
Lì, con bei comportamenti e con belle parole,
ingannò Isifile, la giovane donna
che era stata capace di ingannare tutte le altre per salvare suo padre.
La abbandonò poi su quell’isola, incinta e sola;
è stata quella sua colpa a condannarlo ad una simile punizione;
e vieni qui ora punito anche per la sua colpa contro Medea.
Camminano insieme a Giasone tutti quelli che ingannano altre persone
allo stesso modo: ti basti sapere questo in merito alla prima bolgia
ed a coloro che qui vengono tormentati.”
Eravamo già arrivati là dove lo stretto sentiero
si incrocia con il secondo argine
e fa di questo il sostegno per un altro ponte.
Arrivati lì, sentimmo gente che gemeva sommessamente
dal fondo dell’altra bolgia e che sbuffava con il muso,
e che si percuoteva da sola con le proprie mani.
I bordi del fossato erano incrostati da una specie di muffa,
generata dalle dense esalazioni che vi si depositano,
tanto disgustosa da essere intollerabile alla vista ed all’olfatto.
Il fondo della bolgia è talmente buio, che non c’è nessun luogo
dal quale riusciamo a vedere cosa ci sia sotto, fintanto che non
arriviamo al punto più alto del ponte.
Raggiunsimo quel punto; e da lì giù sul fondo del fossato
vidi persone immerse completamente nelle feci
che sembravano essere state prese dai nostri bagni.
E mentre facevo scorrere il mio sguardo là giù,
vidi un tale con la testa talmente sporca di schifezze, da non riuscire
a capire se avesse tutti i capelli (laici) o li avesse rasati (chierici).
Quel dannato mi gridò dietro: “Perché hai così tanta voglia di guardare
me e non di guardare gli altri che come me sono ricoperti di schifezza?”
Ed io gli risposi: “Perché, se ricordo bene,
ti ho già visto prima quando ancora avevi i capelli asciutti,
e sei Alessio Interminelli da Lucca:
è questo il motivo per cui guardo te più degli altri.”
E lui allora disse, picchiandosi la testa con le mani:
“A condurmi qua, sommerso dalle schifezze, sono stati i falsi
complimenti, che continuai a ripetere in vita senza fermarmi.”
A questo punto Virgilio: “Fai in modo di spingere”,
mi disse, “lo sguardo un poco più avanti,
così che la tua vista possa bene cogliere il viso
di quella sporca e spettinata prostituta,
che sta là a graffiarsi tutta con le sue unghie sporche,
e ora si china quasi per sedersi, ed ora sta invece dritta in piedi.
Lei è Taide, la prostituta che diede come risposta
al sua amante quando le chiese: “Sono molto in grazia
a te?”: “A meraviglia!”
E di questo schifo ci basti adesso quanto abbiamo già visto.”
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