Parafrasi canto 18 (XVIII) del poema Orlando Furioso

Parafrasi del Canto 18 (XVIII) del poema Orlando Furioso – Prima parte dell’episodio di Cloridano e Medoro. I due saraceni lasciano nella notte l’accampamento pagano per dare sepoltura al loro padrone Dardinello. Vengono però sorpresi da un gruppo di cavalieri guidati da Zerbino.

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146
Mentre la sorte fa soffrire costoro per mare,
non lascia però nemmeno ancora riposare in terra quegli altri,
che si trovano in Francia, dove il popolo d’Inghilterra ha intrapreso
una guerra sanguinosa con i saraceni.
Lì Rinaldo assale, divide e disperde
le schiere avversarie, ed i loro stendardi fa quindi abbandonare a terra.
Raccontai di lui, che il proprio destriero Baiardo
aveva lanciato contro il vigoroso Dardinello.

147
Rinaldo vide l’insegna, divisa in riquadri bianchi e rossi,
appartenente a Dardinello, superbo figlio di Almonte;
lo giudicò quindi essere un guerriero valoroso e capace,
dato che osava gareggiare con Orlando per il possesso della insegna.
Andò più vicino e gli sembrò quindi confermata la sua prima impressione;
poichè Dardinello aveva intorno a sé un cumulo di uomini uccisi.
Gridò quindi: “Meglio è che io strappi e metta fine
a questo germe cattivo prima che cresca ulteriormente.”

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Dovunque il paladino volga il proprio sguardo,
ogniuno subito si fa da parte, concedendogli pieno passaggio;
il cristiano non sgombra la strada meno del saraceno,
tanto rispettata è la sua famsa spada.
Rinaldo, ad eccezione del misero Dardinello,
non ha occhi per nessun altro, e non si attarda quindi nel seguirlo.
Grida: “Ragazzino, gravi preoccupazioni ti diede
colui ti lasciò in eredità questo scudo, l’insegna che esso porta.

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Vengo da te per verficare, se mi stai ad aspettare,
come custodisci bene l’insegna a riquadri bianchi e rossi;
perchè se non sei in grado di difenderla adesso contro di me,
non potrai nemmeno pensare di poterla difendere contro Orlando.”
Rispose Dardinello: “Mettiti bene in testa
che se io porto questo scudo, lo so quindi anche difendere bene;
e non posso che ottenere più onore e non preoccupazioni
dall’insegna ereditata da mio padre.

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Benché io sia un ragazzo, non credere di potermi fare
però fuggire o che lo scudo ti consegni di mia volontà:
se mi togli le armi è perché mi hai tolto la vita;
ma ho fiducia in Dio che avverrà invece il contrario.
Accada ciò che lui vuole, non potrà però nessuno mai rimproverarmi
di aver perso le qualità della mia stirpe.”
Dopo essersi così pronunciato, impugnata la spada
assalì Rinaldo.

151
Una gelida paura oppresse tutto il sangue
che gli Africani avevano in petto,
non appena videro Rinaldo mettersi
contro quel signore con tanta rabbia,
quanta potrebbe provarne un leone che proceda in un prato
dopo aver visto un torello ancora giovane.
Il primo a vibrare un colpo fu il saraceno;
ma colpì senza alcun risultato l’elmo preso da Membrino.

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Rinaldo rise e disse: “Voglio insegnarti
che io so colpire a sangue molto meglio di te.”
Sprona il proprio destriero ed allo stesso tempo allenta la briglia,
e sferra con tanta forza un colpo con la punta della spada,
rivolta verso il petto dell’avversario,
da farla poi ricomparire dietro la schiena dell’avversario.
L’arma estrasse, tornando indietro, l’anima ed il sangue di Dardinello:
il corpo cadde dalla sella freddo e dissanguato.

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Come un rosso fiore muore, privo di forze,
dopo essere rimasto aterra tranciato dal passaggio dell’aratro;
o come, carico di eccessiva pioggia,
il papavero abbassa nell’orto il proprio capo:
così, perdendo il colorito in viso
mentre cade da cavallo, muore Dardinello;
muore e fa venire meno al mondo insieme a sé,
anche la virtù ed il coraggio di tutti i suoi predecessori.

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Come l’acqua, grazie all’ingegno umano,
può a volte rimanere ostruita e rinchiusa,
e quando gli viene tolto l’impedimento, argine o diga,
precipita a cascata e si riprende la libertà con grande rumore;
allo stesso modo gli Africani, che avevano trattenuto i propri impulsi
fintanto che Dardinello aveva infuso in loro del valore,
ora si disperdono in ogni direzione,
avendolo visto cadere morto dalla sella.

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Rinaldo lascia fuggire coloro che vogliono farlo,
dedicandosi invece a mettere in fuga coloro che intendono resistere.
Cade gente morta ovunque passi Ariodante,
che quel giorno riuscì quasi ad eguagliare, per valore, Rinaldo.
Altri vennero uccisi da Leonetto, altri vennero fatti a pezzi da Zerbino,
ogniuno ardentemente desideroso di dare prova del proprio valore.
Re Carlo fa il proprio dovere, fa lo stesso Oliviero,
Turpino e Guido e Salomone e Ugiero.

156
Per gli arabi quel giorno ci fu il grande pericolo
che nella loro terra non potesse tornare nessuno vivo;
il saggio re di Spagna a quel punto afferra la situazione
e se ne va dal campo di battaglia con ciò che gli resta dell’esercito.
Ritiene più conveniente rimanere sconfitto,
che perdere tutti i suoi averi, soldi e vestiti:
è meglio ritirarsi e salvare così qualche schiera dell’esercito,
che, rimanendo sul campo, essere causa della morte di tutti.

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Invia le insegne verso gli alloggiamenti,
che erano al riparo tra un argine ed un fossato,
con Stordilano, con Madarasso, re di Andalusia,
con Tesira, re di Lisbona, raggruppati in un unico grosso schieramento.
Manda quindi Agramante, re d’Africa, a pregare gli avversari
perché si cerchi di ritirarsi meglio che si possa fare;
e se riuscirà, quel giorno, a salvare la persona
e gli alloggiamenti, non avrà fatto poca cosa.

158
Il re Agramante, ritenendosi completamente spacciato,
e credendo di non poter più ormai rivedere Biserta, capitale del regno,
perchè una sorte tanto orribile ed avversa
non l’aveva mai sperimentata fino ad allora,
si rallegrò però vedendo che Marsilio stava conducendo
almeno parte dell’esercito verso una salvezza certa:
cominciò allora anche lui la ritirata, a fare tornare indietro
le insegne, e fece quindi chiamare la raccolta.

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Ma la maggior parte della gente dispersa nella sconfitta
non ascolta né la tromba, né il tamburo e né qualunque altro segnale:
tanta fu la codardia, tanta la paura,
che nella Senna se ne videro molti gettarsi ed affogare.
Il re Agramante vuole ridurre il numero di soldati in fuga:
ha con sé Sobrino e vanno insieme correndo in giro da ogni parte;
e con loro si affatica ogni buon duca,
nel tentativo di ricondurre le truppe in fuga negli alloggiamenti.

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Ma né il re, né Sobrino e nemmeno qualunque duca,
con preghiere, con minacce, con grandi pene e fatiche può riuscire
a fare ritirare più di un terzo dell’esercito, e non dico a testa,
dove le insegne si stanno dirigendo, protette a fatica.
Ne muoiono o fuggono due per ogniuno che
rimane, quest’ultimo non senza riportare danni:
viene ferito chi è sul fronte e chi sul retro dello schieramento;
tutti quanti comunque stanchi ed affaticati.

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Con loro grande paura, i cristiani gli diedero la caccia fino
a dentro le porte delle loro robuste fortificazioni:
e gli stessi alloggiamenti erano insufficienti alla loro difesa,
qualunque preparativo di resistenza avessero intrapreso
(perché re Carlo sapeva approfittare molto bene
della buona sorte, quando questa si mostrava a lui favorevole),
se non fosse giunta l’oscurità della notte,
ad interrompere gli avvenimenti ed a calmare ogni cosa;

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giunse la notte, forse accelerata da Dio,
che ebbe pietà per tutte le sue creature.
Il sangue sparso sul campo di battaglia formò grandi onde, iniziò
a scorrere come un grande fiume ed allagò le strade.
Furono contati ottantamila corpi
messi a morte quel giorno.
Uscirono poi di notte, dalle loro grotte,
villani e lupi per spogliare i morti dei loro averi e sbranarli.

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Re Carlo non torna più dentro alla città
ma si accampa all’aperto nei pressi dei nemici,
e chiude in assedio il loro accampamento,
e accende alti e grossi fuochi tutto intorno.
Agramante provvede alle difese degli alloggiamenti, fa scavare
fossati e trincee, allestisce dal nulla, in tutta fretta, delle fortificazioni;
continua a cotrollare i lavori e tiene sveglie le guardie,
e non si spoglia, per tutta la notte, delle proprie armi.

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Tutta la notte, per gli alloggiamenti
dei poco sicuri saraceni, oppressi dal nemico,
vengono versate lacrime, spesi gemiti e lamenti,
tenuti, per quanto è possibile, soffocati e quieti.
Alcuni lo fanno perchè hanno perso amici o parenti
in battaglia, altri lo fanno per sé stessi,
perché feriti e si sentono a disagio:
ma a nuocere a loro è, più di ogni altra cosa, la paura del futuro.

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Lì insieme agli altri si trovarono anche due arabi,
nati nella Tolometta, di sconosciuta stirpe,
la storia dei quali, come raro esempio
di vero amore, è degna di essere raccontata.
Cloridano e Medoro erano i loro nomi,
sia nella buona che nella cattiva sorte
avevano sempre avuto a cuore Drdinello,
ed avevano quindi poi attraverso con lui il mare per giungere in Francia.

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Cloridano, cacciatore da quando era nato,
era una persona forte e snella:
Medoro aveva le guancie colorite,
bianche e leggiadre della prima giovinezza;
e tra le persone accorse dall’Africa per partecipare a quella impresa
non vi era viso più bello ed allegro:
aveva occhi neri, e capelli riccioli color oro:
sembra un angelo, Serafino, appartenente alla gerarchia più elevata.

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Si trovavano entrambi sopra le fortificazioni,
insieme a molti altri, a difesa degli alloggiamenti,
quando la notte, a metà del suo corso,
guardava ormai il cielo con occhi sonnolenti.
Medoro, tra tutte gli argomenti di discussione
non può fare a meno di ricordare il proprio signore,
Dardinello figlio di almonte, e non riesce a non piangere
per il fatto che resti senza degna sepoltura sul campo di battaglia.

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Rivolto al compagno, disse quindi: “Oh Cloridano,
io non riesco ad esprimere quanto mi dispiacia
della sorte capitata al mio signore, rimasto abbandonato sul terreno,
per i lupi ed i corvi, ahimé, cibo troppo nobile.
Pensando a quanto è stato sempre buono nei miei confronti,
mi sembra che se anche dovessi morire
per salvare l’onore della sua buona reputazione, non potrei compensare
né sciogliere gli immensi obblighi che ho nei suoi confronti.

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Io voglio andare a cercarlo, affinché non rimanga insepolto
in mezzo alla campagna:
e forse Dio vorrà aiutarmi, tenendomi nascosto mentre procedo
attraverso all’accampamento, immerso nel sonno, di re Carlo.
Tu invece rimarrai qui: perché se in cielo è scritto
che io debba morire durante tale impresa, potrai tu comunque raccontarla:
così che, se la Fortuna non permetterà una così bella opera,
il mio buon cuore possa essere reso noto almeno a voce.”

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Cloridano si stupisce che così tanto cuore,
tanto amore, tanta fedeltà, possa avare un ragazzo:
cerca quindi in ogni modo, intenerito da lui,
di rendere quel suo pensiero vano, incompiuto;
ma non ci riesce, perché un così grande dolore
non può ricevere conforto né subire distrazione.
Medoro aveva deciso o di morire
o di seppellire in una degna tomba il suo signore.

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Visto che non riesce né a piegare né a smuovere la sua volontà,
Cloridano gli risponde: “Verrò allora anche io con te,
anche io voglio intraprendere una tanto lodevole prova,
anche io desidero ed amo una morte tanto gloriosa.
Quale cosa potrà mai giovarmi di più,
se io dovessi restare senza di te, mio caro Medoro?
Morire con le armi insieme a te è molto meglio
che farlo per il dolore, se dovesse accadere che tu mi sia tolto, tu muoia.”

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Così decisi, misero al loro posto su quel bastione
le guardie del turno successivo, e se ne andarono.
Superano fossati e trincee, e dopo poco
sono tra i soldati cristiani, che non mostrano nessuna preoccupazione.
Tutto l’accampamento dorme, tutti i fuochi sono spenti,
perché hanno poca paura dei saraceni.
Stanno rovesciati tra le armi ed i carri,
ubriachi, immersi in un sonno profondo.

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Cloridano si fermò un poco e disse:
“Le occasioni, quando si presentano, non sono mai da lasciare.
Di questo esercito, che ha trafitto ed ucciso il mio signore,
non davo fare, Medoro, strage?
Tu, affinché nessuno ci giunga addosso,
poni orecchie ed occhi da ogni parte;
che io mi offro di farti con la mia spada
un spaziosa via di passaggio tra i nemici.”

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Così disse, subito trattenne ogni altra parola, si zittì,
ed entro nell’alloggio dove dormiva il dotto Alfeo,
che l’anno prima si era unito alla corte di re Carlo,
medico e mago e saggio astrologo:
ma in questa occasione il suo sapere a poco gli fu d’aiuto;
anzi, al contrario, gli venne completamente rivelata una bugia
Egli aveva infatto predetto a sé stesso che, ormai anziano,
avrebbe dovuto morire tra le braccia di sua moglie:

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ed ora invece il cauto saraceno gli ha infilato
in gola la punta della sua spada.
Uccide anche altre quattro persone che giacevano nei pressi dell’indovino,
senza che ebbero neanche il tempo di dire una parola:
Turpino nn menziona i loro nomi,
ed il molto tempo trascorso ha disperso le notizie riguardo a loro:
dopo di loro Cloridano uccise Palidon da Monalieri,
che di sicuro stava allora dormendo tra due destrieri.

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Giunse poi dove, con il capo
appoggiato ad un barile, giaceva in terra il povero Grillo:
lo aveva vuotato, ed aveva quindi creduto di poter
godere in santa pace un sonno tranquillo e pacifico.
Il geniale saraceno gli troncò il capo:
insieme al sangue esce attraverso un stesso foro anche il vino,
che ha in corpo in una quantità enorme;
sogna Grillo di bere mentre Cloridano lo uccide.

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E vicino a Grillo, un soldato Greco ed uno Tedesco
uccide con due soli colpi, i loro nomi erano Andropono e Conrado,
che avevano goduto all’aperto gran parte
della notte, con in mano ora una tazza ed ora i dadi da gioco:
sarebbero stati felici se avessero deciso di passare svegli a tavola
tutta la notte fino alla mattina seguente.
Ma il destino non avrebbe alcun potere sugli uomini,
se ogniuno potesse prevedere il proprio futuro.

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Come in una stalla piena di animali, un leone fino ad allora a digiuno,
asciugato in fisico e dimagrito per la lunga fame,
uccide, scanna, mangia fa a pezzi
il debole gregge venuto a trovarsi in suo potere;
allo sesso modo il crudelo Cloridano dissangua nel sonno
la gente cristiana, e fa ovunque strage di uomini.
Anche la spada di Medoro non è poco tagliente;
ma si rifiuta di ferire la spregevole plebe.

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Medoro era giunto dove il duca di Labretto
dormiva abbracciato con una sua dama;
e l’uno con l’altra si tenevano tanto stretti,
che non sarebbe passata aria tra i loro corpi.
Medoro ad entrambi taglia di netto il capo.
Oh felice morire! Oh dolce destino!
Perché così come si trovavano i corpi, credo veramente
che anche le loro anime proseguirono abbracciate il loro percorso.

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Uccise Malindo ed il fratello Ardalico,
figli del conte di Fiandra;
entrambi erano stati appena nominati
da re Carlo, concedendogli di portare i gigli di Francia nella loro insegna,
perchè quel giorno aveva visto tornare entrambi
con le spade rosse sangue per la strage fatta tra i nemici:
ed aveva promesso loro il possesso di terre in Frisia,
e le avrebbe anche date; ma Medoro lo impedì.

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Le minacciose spade di Cloridano e Medoro erano ormai vicine
ai padiglioni che i paladini avevano allestito
tutt’intorno al padiglione principale di re Carlo,
così da poter fare ognuono, a turno, la guardia;
a quel punto i saraceni ritirarono le loro spade
dal compiere la crudele strage, e tornarono quindi indietro in tempo;
perché a loro sembra impossibile, in mezzo a così tanta gente,
non trovare infine uno che in realtà non dorma.

182
E sebbene possano anche andersene carichi di bottino,
pensino piuttosto salvare sé stessi, perché sarebbe un grande guadagno.
Cloridano procede dove crede di avere il più
sicuro passaggio, dietro sé ha il proprio compagno.
Giungono sul campo di battaglia, dove tra spade ed archi
e scudi e lance, in una pozza rossa sangue,
giacino morti poveri e ricchi, re e semplici vassalli,
ed i cavalli sottosopra con i loro cavalieri.

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Quell’orribile ammasso intricato di corpi,
che riempiva in ogni luogo tutta la vasta campagna,
avrebbe potuto vanificare il fedele proposito di ritrovare Dardinello,
dei due compagni, fino alla mattina del giorno seguente,
se la Luna non avesse tratto fuori da una scura nube,
come da preghiere di Medoro, la sua falce luminosa.
Medoro con devozione fissò in cielo,
verso la luna, i propri occhi, e così si pronunciò:

184
“Oh santa Dea, che dai nostri antenati
sei stata giustamente detta triforme (Dea di cielo, terra ed inferno);
che nel cielo, sulla terra e nel profondo inferno mostri
la tua suprema bellezza sotto più forme,
e nelle selve, animali selvaggi e mostri
vai cacciando, nelle vesti di Diana, seguendone le orme;
indicami il punto dove giace in mezzo a tanti altri il mio re,
che da vivo si dedicò all’attività sacra a te consacrata, la caccia.

185
A quelle preghiere la Luna aprì la scura nube che la nascondeva
(fosse stato un puro caso o altrimenti la tanta fede mostrata da Medoro),e si mostrò bella come lo fu quando offrì sé stessa,
e si abbandonò nuda tra le braccia di Endimione.
A quella luce Parigì venne scoperta, resa visibile,insieme
ad entrambi gli accampamenti; furono visibili il monte e la pianura:
si videro i due colli lontanti,
Montmartre sulla destra e Montlhery sulla sinistra.

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Lo splendore della Luna fu più vivo
laddove giaceva morto il corpo di Dardinello, figlio di Almonte.
Medoro andò, piangendo, nei pressi del suo caro signore:
del quale riconobbe l’insegna a riquadri bianchi e rossi:
e gli bagnò tutto il viso con le lacrime del suo doloroso
pianto, che gli rigava il viso, come un fiume, sotto entrambi gli occhi,
con così dolci gesta, con così dolci lamenti,
che ad ascoltarlo avrebbe potuto fermare i venti per la compassione.

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Ma si lamenta con una voce bassa ed a malapena udibile;
non perché si guardi bene dall’essere udito,
avendo preoccupazione per la salvezza della sua propria vita,
al contrario, infatti, la odia e vorrebbe abbandonarla:
lo fa per la paura che gli possa essere impedito il compimento
di quella opera pia che la ha fatto andare fino a quel luogo.
Il corpo morto del loro re fu sollevato sulle spalle
di entrambi, così da dividere il peso tra di loro.

188
Procedono quindi affrettando quanto possono i loro passi,
sotto il caro peso che li ostruisce.
Già sopraggiungeva il sole, signore della luce,
a togliere le stelle dal cielo, e l’ombra dalla terra;
quando Zerbino, al quale libera il petto dal sonno,
nel momento del bisogno, la suprema virtù che possiede,
avendo dato la caccia tutta la notte ai nemici,
ritorna, con le prim luci del giorno, all’accampamento.

189
E con sé aveva al seguito un buon numero di cavalieri,
che da lontano videro subito i due compagni, Medoro  Cloridano.
Ognuno dei cavalieri si dirigeva da quella parte, verso di loro,
sperando di poter trovare un bottino ed un guadagno.
Disse Cloridano: “Fratello, bisogna
gettare il peso che portiamo e darsi alla fuga;
sarebbe al contrario una idea non troppo astuta
perdere due persone vive per salvarne una morta.”

190
E gettò quindi il carico, pensando
che il suo caro Medoro dovesse fare altrettanto:
ma quel meschino, che amava il suo signore più di sé stesso,
tenne invece tutto il peso sopra le proprie spalle.
Cloridano di tutta fretta si mise in fuga,
come se avesse avuto l’amico o al fianco od almeno dietro di sé:
se si fosse reso conto di averlo abbandonato a quella sorta,
avrebbe atteso senza alcuna cura non una morte, ma mille.

191
Quei cavalieri, con l’animo risoluto
che i due si debbano arrendere o altrimenti morire,
chi da una parte e chi dall’altra, si sparpagliano, e subito
bloccano ogni possibile via di fuga.
Poco lontano da loro, il loro capitano
si lancia all’inseguimento anche più velocemente degli altri;
poiché vedendoli così agire spinti dalla paura,
è certo che entrambi appartengano all’esercito nemico.

192
C’era a quel tempo lì vicino una antica selva,
fitta di piante ombrose e di giovani arbusti,
che, alla pari di un labirinto, al suo interno si avvolge
su stretti sentieri frequentati solo da bestie.
I due pagani sperano possa essere tanto loro amica
da riuscire a tenerli nascosti tra i suoi rami intricati.
Ma chi trova piacere dal mio raccontare, e vuole saperne di più,
dovrà aspettare ancora prima di poterlo nuovamente ascoltare.

Un pensiero riguardo “Parafrasi canto 18 (XVIII) del poema Orlando Furioso

  1. molto utile questo sito ma sarebbe ancora più utile se venissero presentate le figure retoriche!

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