Considerato il padre della lingua italiana, Dante Alighieri è l’autore della Comedìa, divenuta celebre come Divina Commedia, universalmente considerata la più grande opera scritta in italiano e uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale. Dante Alighieri è per questo conosciuto in Italia come il Sommo Poeta, e spesso semplicemente chiamato per antonomasia il Poeta.
La data di nascita di Dante è sconosciuta, anche se in genere viene indicata attorno al 1265, sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell’Inferno – che comincia con la frase “Nel mezzo del cammin di nostra vita”: poiché in altre sue opere, seguendo una tradizione ben nota, la metà della vita dell’uomo viene considerata di 35 anni, e svolgendosi il viaggio immaginario nel 1300, si risalirebbe al 1265). Alcuni versi del Paradiso ci dicono poi che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno:
« L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve dà colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. »
(Paradiso, Canto XXII, 151-154)
Nacque comunque nell’importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un’alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in “Guelfi bianchi” e “Guelfi neri”.
Dante credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inferno Canto XV, 76), ma il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Paradiso Canto XV, 135), vissuto intorno al 1100.
Suo padre, Aleghiero o Alaghiero di Bellincione, era un Guelfo, ma non patì vendette dopo che i Ghibellini vinsero la battaglia di Montaperti: questo perché la sua famiglia non godeva di una particolare popolarità da considerarsi una minaccia.
La madre di Dante era Bella degli Abati: Bella corrisponde a Gabriella, Abati era il nome di un’importante famiglia. Bella morì quando Dante aveva 5 o 6 anni ed Alaghiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi che mise al mondo Francesco e Tana (Gaetana) e forse anche – ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati – un’altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi. Si ritiene che a lei alluda Dante nella Vita nova (XXIII, 11-12), chiamandola «donna giovane e gentile […] di propinquissima sanguinitade congiunta».
Quando Dante aveva 12 anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all’età di 20 anni. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell’epoca ed era una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti ad un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, i guelfi neri. Politicamente Dante apparteneva alla fazione dei guelfi bianchi, che pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati col Papa, erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale: Dante in particolare, nella sua opera De Monarchia, auspicava l’indipendenza del potere imperiale dal Papa, pur riconoscendo a quest’ultimo una superiore autorità morale.
Da Gemma Dante ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna. Si dice fosse figlio suo anche un certo “Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia”, che compare come testimone in un atto del 21 ottobre 1308 a Lucca.
A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza: dopo l’entrata in vigore dei regolamenti di Giano della Bella (1295), che escludevano l’antica nobiltà dalla politica permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un’Arte, Dante si immatricolò all’Arte dei Medici e Speziali.
L’esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all’aprile 1296; fu nel gruppo dei “Savi”, che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l’elezione dei Priori, cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta come ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.
Nonostante l’appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII. Con l’arrivo del cardinale Matteo d’Acquasparta, inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal papa per ridimensionare la potenza della parte dei Guelfi Bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui Neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato ed era in carica durante il difficile momento in cui il cardinale mosse un esercito da Lucca contro Firenze, venendo però bloccato ai confini dello stato fiorentino.
Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana i capi e le “teste calde” delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (presto essi tornarono alla spicciolata) ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri, che stavano per approfittare della situazione quando i Bianchi erano senza leader, ritardando oltre misura l’inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, Dante compreso, sia l’odio della parte nemica sia la diffidenza degli “amici”, e da lui stesso fu definito come l’inizio della sua rovina.
Con l’invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal Papa come teorico paciere (ma conquistatore di fatto), la Repubblica spedì a Roma un’ambasceria con Dante stesso, accompagnato da Maso Minerbetti e dal Corazza da Signa.
Dante si trovava quindi a Roma, trattenuto oltre misura proprio da Bonifacio, quando Carlo di Valois, al primo pretesto, mise a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301 Cante Gabrielli da Gubbio fu nominato Podestà di Firenze, dando inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli elementi ostili al Papa, che si risolse nell’uccisione o nell’esilio di tutti i Guelfi Bianchi. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, il poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo ed alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.
Durante l’esilio, Dante fu ospite di diverse corti e famiglie dell’Italia centro-settentrionale, fra cui i ghibellini Ordelaffi, signori di Forlì, dove probabilmente si trovava quando Enrico VII entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel da Verona, che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita.
In particolare, falliti i tentati colpi di mano del 1302, in qualità di capitano dell’esercito degli esuli organizzò, insieme a Scarpetta degli Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì, un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L’impresa, però, fu sfortunata: il podestà di Firenze, un altro forlivese (nemico degli Ordelaffi), Fulcieri da Calboli, riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Puliciano.
Dopo questo, Dante, deluso, anche se tornò a Forlì ancora nel 1310-1311 e nel 1316 (data incerta, quest’ultima), decise di fare “parte per se stesso” e di non contare più sull’appoggio dei ghibellini per rientrare nella sua città.
Morì il 14 settembre 1321 a Ravenna, città nella quale aveva trovato rifugio presso la corte del signore Guido Novello da Polenta, quando, passando dalle paludose Valli di Comacchio, contrasse la malaria, di ritorno da un’ambasceria a Venezia, allora in attrito con Ravenna ed in alleanza con Forlì: gli storici pensano che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze. I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella Chiesa di San Francesco a Ravenna.
Lo “Stilnovo” e Beatrice
A 18 anni Dante incontrò Lapo Gianni, Cino da Pistoia e subito dopo Brunetto Latini: insieme essi divennero i capiscuola del Dolce Stil Novo. Brunetto Latini successivamente fu ricordato dal poeta nella Divina Commedia (Inferno, XV, 82) per quello che aveva insegnato a Dante, non come un semplice maestro ma come uno dei più grandi luminari che segnò profondamente la sua carriera letteraria e filosofica: maestro di retorica, abile compilatore di trattati enciclopedici, dovette iniziarlo alla letteratura cortese provenzale e francese, scrivendo il Tresor proprio in Francia. Brunetto mette in evidenza il rapporto tra gli studi di grammatica (latino) e di retorica e la filosofia amorosa cortese, gettando le basi degli interessi speculativi del futuro Dante. Altri studi sono inoltre segnalati, o sono dedotti dalla Vita Nuova o dalla Divina Commedia, per ciò che riguarda la pittura e la musica.
All’età di 9 anni Dante si innamorò di Beatrice, la figlia di Folco Portinari. Si è detto che Dante la vide soltanto una volta e mai le parlò (ma altre versioni sono da ritenersi ugualmente valide). Più interessante però, al di là degli scarni dati biografici che ci sono rimasti, è la Beatrice divinizzata e dunque sublimata della Vita Nuova: l’angelo che opera la conversione spirituale di Dante sulla Terra, lo studio psicologico che compie il poeta sul proprio innamoramento. L’introspezione psicologica, l’autobiografismo, ignoto al Medioevo, guardano già al Petrarca e più lontano ancora, al Rinascimento. Il nome Beatrice assumerà soprattutto nella Divina Commedia la sua reale importanza, in quanto, etimologicamente parlando, significa Portatrice di Beatitudine, tanto che solo questa figura potrà condurre Dante lungo il percorso del Paradiso.
È difficile riuscire a capire in cosa sia consistito questo amore, ma qualcosa di estremamente importante stava accadendo per la cultura italiana: è nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce Stil Novo e condurrà i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell’amore, in un modo mai così enfatizzato prima.
L’amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione della sua concezione del Dolce Stil Novo, nuova concezione dell’amor cortese sublimata dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi), per poi approdare alla filosofia dopo la morte dell’amata, che segna simbolicamente il distacco dalla tematica amorosa e l’ascesa del Sommo Poeta verso la Sapienza, luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso della Divina Commedia.