Titolo: Il Gattopardo
Autore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa
In breve:
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altrevoci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.
Introduzione:
Il Gattopardo è un romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa tra la fine del 1954 e il 1957.
L’opera letteraria fu all’inizio presentata agli editori Einaudi e Mondadori, che ne rifiutarono però la pubblicazione. Questa avvene quindi solo dopo la morte dell’autore a cura di Feltrinelli.
Il Romanzo ricevette nel 1959 il Premio Strega. Nel 1963 fu tradotto da Luchino Visconti nel film omonimo e nel 1967 dal romanzo venne anche tratta un’opera musicale di Angelo Musco.
Per la scrittura del romanzo l’autore trasse ispirazione da vicende reali della sua antica famiglia e in particolare dalla vita del suo bisnonno, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, vissuto negli anni cruciali del Risorgimento e noto anche per le sue ricerche astronomiche e per l’osservatorio astronomico da lui realizzato.
Lo stesso titolo del romanzo ha trova origine nello stemma di famiglia dei Tomasi ed è così commentato nel romanzo: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.»
L’autore compie all’interno dell’opera un processo narrativo che è sia storico che attuale. Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa prende in realtà spunto per parlare di eventi del tempo a lui presente e per presentare e fare emergere l’eterno ed inossidabile spirito siciliano, più volte citato come ‘gattopardesco’.
Nel dialogo con Chevalley, il principe di Salina spiega ampiamente lo spirito della sicilianità. Egli ne parla con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti di governo avvenuti sull’isola più volte nel corso della storia, hanno finito per fare adattare il popolo siciliano ai popoli “invasori”, senza tuttavia modificare l’essenza ed il carattere dei siciliani stessi. Così il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l’orgoglio del siciliano e quindi la sua stessa natura. Egli vuole così esprimere l’incoerenza dell’adattamento al nuovo e nel contempo l’incapacità vera di modificare sé stessi.
In questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all’innovazione, le forme di resistenza mafiosa, la violenza dell’uomo ed anche quella della natura.
Per il tema trattato, il romanzo è spesso considerato storico, benché non ne soddisfi tutti i canoni.
La vicenda descritta nel Gattopardo può sì a prima vista far pensare che si tratti di un romanzo storico. Tomasi presenta però la vicenda risorgimentale solo attraverso il machiavellismo della classe dirigente, che in extremis si mette al servizio dei garibaldini e dei piemontesi, convinta che fosse il modo migliore perché tutto restasse com’era. Questa rappresentazione è quindi inevitabilmente limitata dalla stessa prospettiva da cui è descritta. Restano così fuori dal romanzo molti eventi storici importanti e quindi le mancanze del “Gattopardo” come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono più che evidenti.
Lo stesso modulo narrativo si discosta poi molto dai canoni del romanzo storico: il romanzo è suddiviso in blocchi e la narrazione segue una sequenza di episodi che, pur facendo capo ad un personaggio principale, sono dotati ciascuno di una propria autonomia.
Il fallimento risorgimentale descritto non sembra poi essere un semplice esempio di scarto tra speranze e realtà nella storia degli uomini, ma piuttosto l’esempio di una norma costante delle vicende umane, destinate inesorabilmente al fallimento: gli uomini, anche re Ferdinando o Garibaldi, possono solo illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto suo, in un’altra vallata. La negazione della storia, la sterilità dell’agire umano, è uno dei temi più ricorrenti e significativi del libro. In questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”, il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica commedia e Marx un “ebreuccio tedesco”, di cui al protagonista sfugge il nome, e la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di storia, resta una categoria astratta, una immutabile ed eterna metafisica «sicilianità» che coincide con una distaccata e decadente indifferenza, unita a un erroneo senso di superiorità verso i conquistatori.
Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della decadenza e della morte esemplificato nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi che sarà sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei Sedara, ma che permea comunque di sé tutta l’opera: la descrizione del ballo, il capitolo – secondo alcuni critici il punto più alto del romanzo – della morte di don Fabrizio, la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle loro cose.
Si può dire in conclusione che fra la tradizione del romanzo storico di fine Ottocento, siciliana o europea, ed il “Gattopardo” è passato il decadentismo con le sue stanchezze, le sue sfiducie e la sua contemplazione della morte. Da considerare inoltre che l’opera di Tomasi cadeva in un momento di ripiegamento degli ideali della società italiana e di quella letteratura che si era sforzata di dare voce artistica a quegli ideali.
Riassunto:
Come detto nell’introduzione all’opera, il Gattopardo si ispira alla vita della famiglia ed in particolare dell’antenato dello stesso autore, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che nel romanzo diventa il Principe Fabrizio Salina, ed è ambientato in Sicilia (a Palermo e nel feudo agrigentino di Donnafugata, che altro non è che il paese di Palma di Montechiaro) tra gli anni 1860 e 1910.
Don Fabrizio è padre di sette figli ed è esponente di un casato che per secoli “non aveva mai saputo fare neppure l’addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti”.
Il principe possiede forti inclinazioni verso le scienze matematiche e le applica all’astronomia, ottenendo da questa sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private. Un’altra passione di Don Farbrizio sono le donne e la moglie, Maria Stella, è solita avere crisi isteriche quando viene a sapere del marito e delle amanti che frequenta.
I pensieri di Don Fabrizio oscillano sempre tra amore e morte, pensieri sensuali e pensieri fortemente negativi e disillusi.
All’inizio del primo capitolo si parla ad esempio di un cadavere rinvenuto nel giardino di Casa Salina “il cadavere di un giovane soldato del quinto battaglione cacciatori, che ferito nella zuffa di san Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto di formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera.”
Nel maggio 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, Don Fabrizio assiste con distacco e con malinconia alla fine del suo ceto. La classe aristocratica capisce di essere ormai prossima alla fine della sua supremazia. Approfittano infatti della nuova situazione politica gli amministratori e i mezzadri, divenendo così la nuova classe sociale in ascesa.
Don Fabrizio, appartenente ad una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato sul futuro dal nipote Tancredi, che, pur combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gli eventi a proprio vantaggio.
Quando, come tutti gli anni, il principe si reca con tutta sua famiglia nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Calogero Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito, che si è arricchito ed ha fatto carriera in campo politico.
Tancredi, che in precedenza aveva manifestato qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, si innamora ora di Angelica, figlia di don Calogero, “bocca di fragole e anfora colma di monete”, che infine sposerà, abbagliato sicuramente dalla sua bellezza ma attratto anche dal suo patrimonio.
È Tancredi, nel comunicare al Principe la decisione di unirsi alle truppe piemontesi, che pronuncia la famosa frase: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!” A questo punto Don Fabrizio comprende che non bisogna opporsi al cambiamento imminente.
Un episodio molto importante riguarda il plebiscito a Donnafugata, nel quale si domanda al popolo di votare in favore o meno all’annessione della Sicilia al Regno Italico. Molti cittadini chiedono a Don Fabrizio un parere, egli risponde di essere favorevole e perciò suggerisce di votare “si”. Questa indicazione, coerente con le convinzioni maturatesi in Don Fabrizio circa la necessità di non opporsi al nuovo regime, viene però interpretata da alcuni come un gesto machiavellico: sarebbe infatti sciocco da parte del principe votare in favore, perché come risultato ultimo perderebbe il suo potere. Altri invece, delusi dal pensiero di Don Fabrizio, non vogliono passare sotto un altro regime, preferendo, secondo l’antico proverbio, “un male già noto a un bene non sperimentato”. Tuttavia ogni tentativo di opporsi all’annessione è vano: i voti negativi vengono annullati da Don Calogero Sedara.
Un altro episodio significativo è l’arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia. Il principe rifiuta però la carica, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano, cercando di spiegare al suo ospite la capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia all’amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto giocoforza sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: “…E dopo sarà diverso, ma peggiore.”
La vita del principe da allora prosegue in modo monotono e sconsolato, fino alla sua morte che lo coglie in un’anonima stanza di albergo nel 1883, mentre tornava da Napoli, viaggio intrapreso per sottoporsi a visite mediche. Nella sua casa rimarranno le tre figlie nubili, inacidite da una vita chiusa e solitaria.
Curiosamente, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa morì in una modesta camera d’albergo, lontano da casa, in un viaggio intrapreso per cure mediche.