Paolino Lovico si buttò per morto su uno sgabello davanti la farmacia Pulejo in Piazza Marina. Guardò dentro, al banco, e asciugandosi il sudore che gli grondava dai capelli su la faccia congestionata, domandò a Saro Pulejo:
– È passato?
– Gigi? No. Ma starà poco. Perché?
– Perché? Perché mi serve! Perché… Quante cose vuoi sapere!
Si lasciò il fazzoletto steso sul capo, appoggiò i gomiti sui ginocchi, il mento sulle mani e rimase lì a guardare a terra, fosco, con le ciglia aggrottate.
Lo conoscevano tutti, là a Piazza Marina. Passò un amico:
– Ohi, Paolì?
Lovico alzò gli occhi e li riabbassò subito, brontolando:
– Lasciami stare!
Un altro amico:
– Paolì, che hai?
Lovico si strappò questa volta il fazzoletto dal capo e sedette in un’altra positura, quasi con la faccia al muro.
– Paolì, ti senti male? – gli domandò allora dal banco Saro Pulejo.
– Oh santo diavolo! – scattò Paolino Lovico, precipitandosi dentro la farmacia. – Che corno t’importa di me, me lo dici? Chi ti domanda niente? se ti senti male, se ti senti bene, che hai, che non hai? Lasciatemi stare!
– Ih, – fece Saro. – T’ha morso la tarantola? Hai domandato di Gigi, e credevo che…
– Ma ci sono forse io solo su la faccia della terra? – gridò Lovico con le braccia per aria e gli occhi schizzanti. – Non posso avere un cane malato? un pollo d’India con la tosse? Fatevi gli affari vostri, santo e santissimo non so chi e non so come!
– Oh, ecco qua Gigi! – disse Saro, ridendo.
Gigi Pulejo entrò di fretta, diviato allo stipetto a muro per vedere se nella sua casella ci fossero chiamate per lui.
– Ciao, Paolì!
– Hai fretta? – gli domandò, accigliato, Paolino Lovico senza rispondere al saluto.
– Molta, sì, – sospirò il dottor Pulejo, buttandosi su la nuca il cappello e facendosi vento col fazzoletto su la fronte. – Di questi giorni, caro mio, un affar serio.
– Non lo dico io? – sghignò allora rabbioso il Paolino Lovico con le pugna protese. – Che epidemia c’è? Cholera morbus? peste bubbonica? il canchero che vi porti via tutti quanti? Devi dare ascolto a me! Senti: morto per morto, io sono qua! Ho diritto alla precedenza. Ohi, Saro, non hai niente da pestare nel mortajo?
– Niente, perché?
– E allora andiamo via! – ripigliò Lovico, afferrando per un braccio Gigi Pulejo e trascinandolo fuori. – Qua non posso parlare!
– Discorso lungo? – gli domandò per istrada il dottore.
– Lunghissimo!
– Caro mio, mi dispiace, non ho tempo.
– Non hai tempo? Sai che faccio? Mi butto sotto un tram, mi fratturo una gamba e ti costringo a starmi attorno per una mezza giornata. Dove devi andare?
– Prima di tutto, qua vicino, in via Butera.
– T’accompagno, – disse Lovico. – Tu sali a far la visita; io t’aspetto giù, e riprenderemo a parlare.
– Ma insomma, che diavolo hai? – gli domandò il dottor Pulejo, fermandosi un po’ a osservarlo.
Paolino Lovico aprì le braccia, sotto lo sguardo del dottor, piegò le gambe, rilassò tutta la personcina arruffata e rispose:
– Gigino mio, sono un uomo morto!
E gli occhi gli si riempirono di lagrime.
– Parla, parla, – lo incitò il dottore: – andiamo, che t’è accaduto?
Paolino fece alcuni passi, poi si fermò di nuovo e, trattenendo Gigi Pulejo per una manica, premise misteriosamente:
– Ti parlo come a un fratello, bada! Anzi, no. Il medico è come il confessore, è vero?
– Certo. Abbiamo anche noi il segreto professionale.
– Va bene. Ti parlo allora sotto il sigillo della confessione, come a un sacerdote.
Si posò una mano su lo stomaco e, con uno sguardo d’intelligenza, aggiunse solennemente:
– Tomba, oh?
Quindi, sbarrando tanto d’occhi e congiungendo l’indice e il pollice, quasi per pesar le parole che stava per dire, sillabò:
– Petella ha due case.
– Petella? – domandò, stordito, Gigi Pulejo. – Chi è Petella?
– Petella il capitano, perdio! – proruppe Lovico. – Petella della Navigazione Generale.
– Non lo conosco, – disse il dottor Pulejo.
– Non lo conosci? Tanto meglio! Ma, tomba lo stesso, oh! Due case, – ripeté con la stess’aria cupa e grave. – Una qua, una a Napoli.
– Ebbene?
– Ah! Ti pare niente? – domandò, scomponendosi tutto nella rabbia che lo divorava, Paolino Lovico.
– Un uomo ammogliato, che approfitta vigliaccamente del suo mestiere di marinajo e si fa un’altra casa in un altro paese, ti pare niente? Ma sono cose turche, perdio!
– Turchissime, chi ti dice di no? Ma a te che te n’importa? Che c’entri tu?
– Che me n’importa, a me? che c’entro io?
– È tua parente, scusa, la moglie di Petella?
– No! – gridò Paolino Lovico col sangue agli occhi. – È una povera donna, che soffre pene d’inferno! Una donna onesta, capisci? tradita in un modo infame, capisci? dal proprio marito. C’è bisogno di esser parente per sentirsene rimescolare?
– Ma che ci posso fare io, scusa? – domandò Gigi Pulejo, stringendosi nelle spalle.
– Se non mi lasci dire, porco diavolo! porca natura! porca vita! – sbuffò Lovico. – Senti che caldo? Io crepo! Quel caro Petella, quel carissimo Petella non si contenta di tradire la moglie, d’avere un’altra casa a Napoli; ha tre o quattro figli là, con quella, e uno qua con la moglie. Non vuole averne altri! Ma quelli di là, capirai bene, non sono legittimi: se ne ha qualche altro, e gli fa impiccio, può buttarlo via come niente. Invece qua, con la moglie, d’un figlio legittimo non potrebbe disfarsi. E allora, brutto manigoldo, che ti combina? (Oh, dura da due anni, sai, questa storia!) Ti combina che nei giorni che sbarca qui, piglia il più piccolo pretesto per attaccar lite con la moglie, e la notte si chiude a dormir solo. Il giorno appresso, riparte, e chi s’è visto s’è visto. Da due anni così!
– Povera signora! – esclamò Gigi Pulejo con una commiserazione da cui non poté staccare un sorriso. – Ma io, scusa… ancora non capisco.
– Senti, Gigino mio, – riprese con altro tono Lovico, appendendoglisi al braccio. – Da quattro mesi io do lezione di latino al ragazzo, al figliuolo di Petella, che ha dieci anni e va in prima ginnasiale.
– Ah, – fece il dottore.
– Se tu sapessi quanta pietà m’ha ispirato quella disgraziata signora! – seguitò Lovico. – Quante lagrime, quante lagrime ha pianto la poverina… E che bontà! È pure bella, sai? Fosse brutta, capirei… È bella! E vedersi trattata così, tradita, disprezzata e lasciata in un canto, là, come uno straccio inutile… Vorrei vedere chi avrebbe saputo resistere! chi non si sarebbe ribellata! E chi potrebbe condannarla? È una donna onesta, una donna che bisogna assolutamente salvare, Gigino mio! Tu capisci? Si trova in una terribile condizione, adesso… Disperata!
Gigi Pulejo si fermò e guardò severamente il Lovico.
– Ah no, caro! – gli disse. – Queste cose io non le faccio. Non voglio mica aver da fare col Codice penale, io.
– Pezzo d’imbecille! – scattò Paolino Lovico. – E che ti figuri, adesso? che ti figuri che io voglia da te? Per chi m’hai preso? Credi ch’io sia un uomo immorale? un birbaccione? Che voglia il tuo ajuto per… oh! mi fa schifo, orrore, solo a pensarlo!
– Ma che corno vuoi dunque da me? Io non ti capisco! – gridò il dottor Pulejo, spazientito.
– Voglio quel ch’è giusto! – gridò a sua volta Paolino Lovico. – La morale, voglio! Voglio che Petella sia un buon marito e non chiuda la porta in faccia alla moglie quando sbarca qui!
Gigi Pulejo scoppiò in una fragorosa risata.
– E che… e che pre… e che pretendi… ohi ohi ohi… ah ah ah… pre… pretendi che io… po… pove… povero Pet… ah ah ah… l’asino… l’asino a bere per… ohi ohi ohi…
– Che ridi, che ridi, animalone? – muggì fremendo e agitando le pugna, Paolino Lovico. – C’è in vista una tragedia, e tu ridi? C’è un farabutto che non vuol fare l’obbligo suo, e tu ridi? una donna ninacciata nell’onore, nella vita, e tu ridi? E non ti parlo di me! Io sono un uomo morto, io vado a buttarmi a mare, se tu non mi dai ajuto, vuoi capirlo?
– Ma che ajuto posso darti io? – domandò il Pulejo, senza potere ancora trattener le risa.
Paolino Lovico si fermò risolutamente in mezzo alla via, stringendo forte un braccio al dottore.
– Sai che avverrà? – gli disse, truce. – Petella arriva stasera; ripartirà domani per il Levante; va a Smirne; starà fuori circa un mese. Non c’è tempo da perdere! O subito, o tutto è perduto. Per carità, Gigino salvami! salva quella povera martire! Tu avrai un mezzo, tu avrai un rimedio… Non ridere, perdio, o ti strozzo! O piuttosto ridi, ridi se vuoi, della mia disperazione, ma dammi ajuto… un rimedio… qualche mezzo… qualche medicina…
Gigi Pulejo era arrivato alla casa di via Butera nella quale doveva far la visita. Come meglio poté, si tenne dal ridere ancora e disse:
– Vuoi insomma impedire che il capitano prenda un pretesto d’attaccar lite questa sera con la moglie?
– Precisamente!
– Per la morale, è vero?
– Per la morale. Seguiti a scherzare?
– No no, dico sul serio adesso. Senti: io vado su; tu ritorna in farmacia, da Saro, e aspettami lì. Vengo subito.
– Ma che vuoi fare?
– Lascia fare a me! – lo assicurò il dottore. – Va’ da Saro, e aspettami.
– Fa’ presto, oh! – gli gridò dietro Lovico a mani giunte.
Sul tramonto, Paolino era allo Scalo per assistere all’arrivo del capitano Petella col «Segesta». L’aveva voluto almeno vedere da lontano, non sapeva bene perché; vedergli l’aria e mandargli dietro una filza di male parole.
Sperava, dopo l’assalto al dottor Pulejo e l’ajuto che era riuscito a ottenere, che l’orgasmo, a cui era in preda dalla mattina, cessasse almeno un poco. Ma che! Recato un certo involtino misterioso di pasterelle con la crema alla signora Petella (poiché al capitano piacevano tanto i dolci), e sceso dalla casa di lei, s’era messo a girare di qua e di là, e l’orgasmo gli era cresciuto di punto in punto.
E ora? Ecco venuta la sera. Avrebbe voluto andare a letto quanto più tardi gli fosse possibile. Ma si stancò presto di girovagare per la città, con la smania esacerbata dal timore d’attaccar lite con qualcuno de’ suoi innumerevoli conoscenti, il quale avesse la cattiva ispirazione d’accostarglisi.
Perché aveva la disgrazia, lui, d’essere «trasparente». Sicuro! E questa trasparenza sua riusciva esilarantissima a tutti gl’ipocriti foderati di menzogna. Pareva che la vista chiara, aperta, delle passioni, e fossero anche le più tristi, le più angosciose, avesse il potere di promuovere le risa in tutti coloro che o non le avevano mai provate o, usi com’erano a mascherarle, non le riconoscevano più in un pover’uomo come lui, che aveva la sciagura di non saperle nascondere e dominare.
Si rintanò in casa; si buttò vestito sul letto.
Com’era pallida, com’era pallida quella poveretta, quand’egli le aveva recato l’involto delle paste! Così pallida e con quegli occhi smarriti nella pena, non era bella davvero…
– Sii sorridente, cara! – le aveva raccomandato con le lagrime in gola. – Acconciati bene, per carità! Indossa quella camicetta di seta giapponese che ti sta tanto bene… Ma soprattutto, te ne scongiuro, non farti trovare così, come un funerale… Animo, animo! Hai apparecchiato tutto per bene? Mi raccomando, che non abbia alcun motivo di lagnarsi! Coraggio, cara, a domani! Speriamo bene… Non dimenticare, per carità, d’appendere un fazzoletto per segno, al cordino là, davanti la finestra di camera tua. Domattina, il mio primo pensiero sarà quello di venire a vedere… Fammelo trovare quel segno, cara, fammelo trovare!
E prima d’andar via aveva seminato col lapis turchino i «dieci» e i «dieci con lode» nel quaderno delle versioni di quel somarone del figlio, che sentiva latino e spiritava.
– Nonò, faglielo vedere a papà… Sai come sarà contento papà! Seguita così, caro, seguita così e fra qualche anno saprai il latino meglio di un’oca del Campidoglio, di quelle, Nonò, che fecero fuggire i Galli, sai? Viva Papirio! Allegri, allegri! dobbiamo essere tutti allegri questa sera, Nonò! Viene papà! Allegro e buono! pulito, composto! Fa’ vedere le unghie… Sono pulite? Bravo. Attento a non sporcartele! Viva Papirio, Nonò, viva Papirio!
Le pasterelle… Se quell’imbecille di Pulejo si fosse preso gioco di lui? No no, questo no. Egli lo aveva reso capace della gravità del caso. Avrebbe commesso una birbonata senza nome, a ingannarlo. Però… però… però… se il rimedio non fosse efficace come gli aveva assicurato?
La noncuranza, anzi il disprezzo di quell’uomo per la propria moglie, lo faceva ora ribollire come se fosse un’offesa fatta a lui direttamente. Ma sicuro! Come mai quella donna, di cui egli, Paolino Lovico, si contentava, non solo, ma che pareva a lui così degna d’essere amata, così desiderabile, non era poi calcolata per nulla da quel mascalzone? Come parere che lui, Paolino Lovico, si contentava del rifiuto di un altro, d’una donna che per un altro non valeva nulla. Oh che era forse meglio quella signora di Napoli? Più bella della moglie? Ma avrebbe voluto vederla! Metterle accanto, l’una e l’altra, e poi mostrargliele e gridargli sul muso:
– Ah, tu preferisci quell’altra? Ma perché tu sei un bestione senza discernimento e senza gusto! Non perché tua moglie non valga centomila volte di più! Ma guardala! Guardala bene! Come puoi aver cuore di non toccarla? Tu non capisci le finezze… tu non capisci il bello delicato… la soavità della grazia malinconica! Tu sei un animale, un majalone sei, e non puoi capire queste cose; perciò disprezzi. E poi, che vuoi mettere? una femminaccia da trivio con una signora per bene, con una donna onesta?
Ah che nottata fu quella per lui! Non un minuto di requie…
Quando finalmente gli parve che cominciasse ad albeggiare, non poté più stare alle mosse.
La signora Petella aveva il letto diviso da quello del marito, in una camera a parte: avrebbe potuto dunque, anche di notte, appendere il fazzoletto al cordino della finestra, perché egli si fosse levato subito d’ambascia. Doveva figurarselo che lui non avrebbe chiuso occhio durante la notte, e appena spuntata l’alba, sarebbe venuto a vedere.
Così pensava, correndo alla casa del Petella. Lusingato dal desiderio ardentissimo, era così sicuro di trovare quel segno alla finestra, che il non trovarlo fu proprio una morte per lui. Si sentì mancar le gambe. Nulla! nulla! E che aspetto funebre avevano quelle persiane serrate…
Una voglia selvaggia gli fece a un tratto impeto nello spirito: salire, precipitarsi in camera di Petella, strozzarlo sul letto!
E come se veramente fosse salito e avesse commesso il delitto, si sentì d’un subito stremato, sfinito, un sacco vuoto. Cercò di sollevarsi; pensò che forse ancora era presto; che forse egli pretendeva troppo, contando che ella di notte si levasse ed esponesse il segno per farglielo trovare all’alba; che forse non aveva potuto… chi sa!
Via, non c’era ancora da disperare… Avrebbe aspettato. Ma lì, no… Aspettar lì, ogni minuto, un’eternità… Le gambe però… non se le sentiva più, le gambe!
Per fortuna, svoltando il primo vicolo, trovò a pochi passi un caffeuccio aperto, caffeuccio per gli operai che si recavano di buon’ora all’Arsenale lì presso. Vi entrò; si lasciò cadere su la panca di legno.
Non c’era nessuno; non si vedeva neanche il padrone; si sentiva però sfaccendare e parlottare di là, nell’antro bujo, dove forse sì accendevano allora allora i fornelli.
Quando, di lì a poco, un omaccione in maniche di camicia gli si presentò per domandargli che cosa desiderasse, Paolino Lovico gli volse uno sguardo attonito, truce, poi gli disse:
– Un fazzole… cioè, dico… un caffè! Forte, bello forte, mi raccomando!
Gli fu servito subito. Ma sì! Metà se lo buttò addosso, metà lo sbruffò dalla bocca, balzando in piedi. Accidenti! Era bollente.
– Che ha fatto, signorino?
– Aaahhh… – fiatava Lovico con gli occhi e la bocca spalancati.
– Un po’ d’acqua, un po’ d’acqua… – gli suggerì il caffettiere. – Prenda, beva un po’ d’acqua!
– E i calzoni? – gemette Paolino, guardandosi addosso.
Cavò di tasca il fazzoletto, ne intinse una cocca nel bicchiere e si mise a stropicciar forte su la macchia. Che bel frescolino alla coscia, adesso!
Distese il fazzoletto bagnato, lo guardò, impallidì, buttò una monetina di quattro soldi nel vassojo e scappò via. Ma, appena svoltato il vicolo, paf! di faccia, il capitano Petella.
– Ohé! Lei qua?
– Già… mi… mi… – balbettò Paolino Lovico senza più una goccia di sangue nelle vene. Mi… mi sono levato per tempo… e…
– Una passeggiatina al fresco? – compì la frase il Petella. – Beato lei! Senza noje… senza impicci… Libero! scapolo!
Lovico gli affondò gli occhi negli occhi per cercare di scoprire se… Ma già il fatto che il bestione fosse fuori a quell’ora, e poi con quell’aria rabbuffata, da temporale… – ah, miserabile! doveva certamente aver litigato con la moglie anche quella sera! (Io l’uccido! – pensò Lovico, – parola d’onore, io l’uccido!) E intanto, con un sorrisetto:
– Ma anche lei, vedo…
– Io? – grugnì il Petella. – Che cosa?
– Ma… a quest’ora…
– Ah, perché mi vede fuori a quest’ora? Una nottataccia, caro professore! Il caldo, forse, io non so!
– Non… non ha… non ha dormito bene?
– Non ho dormito affatto! – gridò il Petella, con esasperazione. – E sa? quando io non dormo… quando non riesco a prender sonno… io arrabbio!
– E che… scusi… che colpa… – seguitò a balbettar Lovico tutto fremente e pur sorridente, – che colpa ci hanno gli altri?
– Gli altri? – domandò stordito il Petella. – Che c’entrano gli altri?
– Ma… se dice che s’arrabbia? Con chi s’arrabbia? con chi se la piglia se fa caldo?
– Me la piglio con me, me la piglio col tempo, me la piglio con tutti! – proruppe il Petella. – Io voglio aria… io sono abituato al mare… e la terra, caro professore, specialmente d’estate, la terra non la posso soffrire… la casa… le pareti… gl’impicci… le donne.
(«L’uccido! parola d’onore, l’uccido!» fremeva tra sé Lovico.) E col solito sorrisetto: – Anche le donne?
– Ah, sa? con me le donne… veramente… Si viaggia… si sta tanto tempo lontani… Non dico ora, che sono vecchio… Ma quando si è giovanotti… Le donne! Io, però, ci ho avuto sempre questo di buono, sa? Quando voglio, voglio… quando non voglio, non voglio. Il padrone sono restato sempre io.
– Sempre?… («L’uccido!»)
– Sempre che ho voluto, s’intende! Lei no, eh? Lei si lascia facilmente prendere? Un sorrisetto… una mossetta… un’aria umile, vergognosetta… dica, eh? dica la verità…
Lovico si fermò a guardarlo in faccia.
– Debbo dirle la verità? Io, se avessi moglie…
Petella scoppiò a ridere.
– Ma non parliamo delle mogli, adesso! Che c’entrano le mogli? Le donne! le donne!
– E non sono donne, le mogli? che cosa sono?
– Ma saranno anche donne… qualche volta! – esclamò Petella. – Lei intanto non ne ha, caro professore; ed io le auguro per il suo bene di non averne mai. Perché le mogli, sa…
Così dicendo, lo prese sotto il braccio e seguitò a parlare, a parlare. Lovico fremeva. Lo guardava in volto, gli guardava gli occhi gonfi, ammaccati, ma forse… eh, forse li aveva così perché non era riuscito a dormire. E ora gli pareva da qualche frase di potere argomentare che quella poverina fosse salva, ora invece, a qualche altra, ripiombava nel dubbio e nella disperazione. E questo supplizio durò un’eternità, perché aveva voglia di camminare, di camminare, il bestione, e se lo trascinava lungo la marina. Alla fine, voltò per ritornare a casa.
«Non lo lascio!» pensava tra sé Lovico. «Salgo con lui a casa e, se non ha fatto l’obbligo suo, questa è l’ultima giornata per tutti e tre!»
Si fissò talmente in questo truce pensiero, tese con tanta violenza e tanta rabbia in esso tutta la sua energia nervosa, che si sentì sciogliere le membra, cascare a pezzi, appena svoltata la via e alzati gli occhi alla finestra della casa del Petella – vide stesi al cordino, oh Dio, oh Dio, oh Dio, uno… due… tre… quattro… cinque fazzoletti!
Arricciò il naso, aprì la bocca, col capo vagellante, ed esalò in un «ah» di spasimo la gioja che lo soffocava.
– Che cos’ha? – gli gridò Petella, sorreggendolo.
E Lovico:
– Oh caro capitano! oh caro capitano, grazie! grazie! Ah… è stata una delizia per me… questa… questa bella passeggiata… ma sono stanco… stanco morto… casco, proprio casco… Grazie, grazie con tutto il cuore, caro capitano! A rivederla! buon viaggio, eh? a rivederla! Grazie, grazie…
E, appena il Petella entrò nel portoncino, prese la via, di corsa, giubilante, esultante, sgrignando e con gli occhi lustri ilari parlanti mostrando le cinque dita della mano a tutti quelli che incontrava.
Luca Pelletta non avrebbe riconosciuto alla stazione di Roma Santi Currao, se questi non gli si fosse fatto avanti chiamandolo ripetutamente:
– Amico Pelletta! Amico Pelletta!
Intontito dal viaggio, tra la ressa e il rimescolio dei passeggeri che gli davano la vertigine, restò a mirarlo, sbalordito:
– Oh, tu Santi? E come mai? Così…
– Che cosa?
– Quantum mutatus ab illo!
– Ma che abillo? Gli anni, amico Pelletta!
Gli anni, sì, ma anche… – Luca lo squadrò alla luce delle lampade elettriche. Gli anni? E quel vestito? Un gran maestro di musica, con quella camicia, con quella giacca, con quei calzoni e quelle scarpe? Dunque, nella miseria? E quella barba incolta, già quasi grigia, cresciuta più sulle gote che sul mento? e quella faccia pallida e grassa? e quelle occhiaje gonfie intorno agli occhi acquosi? Come mai? Era divenuto anche più corto di statura?
Sotto gli occhi di Luca Pelletta pieni di tanto stupore, le labbra del Currao si allargarono a un ghigno muto:
– Tu sei ricco, amico Pelletta e il tempo non ti deteriora. Andiamo, andiamo! Ma ti pongo questo patto: non una parola sul paesaccio in cui io e tu abbiamo avuto la sciagura di nascere. Chi è vivo è vivo, chi è morto è morto: non voglio saperne nulla. Non c’è bisogno di prendere la vettura: sto qua in fondo al viale. Da’ a me la valigia o la cassetta.
– No, grazie: me le porto da me; non pesano molto.
– Il bagaglio lo lasci in deposito alla stazione?
– Quale bagaglio? – fece Luca Pelletta. – Ho questi due colli soltanto: libri e biancheria.
– Ti tratterrai dunque poco?
– No, perché? Sono venuto forse per sempre.
– Così a mani vuote?
Andarono per un tratto in silenzio.
– La tua signora? – s’arrischiò a domandare Luca alla fine. Il Currao abbassò la testa e borbottò:
– Sono solo.
– È fuori di Roma?
– È a Roma, amico Pelletta. Ti dirò a casa. Parliamo ora di te. Ma il pretto necessario e basta. Perché sei venuto a Roma? Sono una bestia. Dimenticavo che tu hai quattrini da buttar via.
– T’inganni… – corresse con un sorrisetto bonario il Pelletta. – Ho sì quanto mi basta: poco; ma io ho bisogno di poco. Nulla da buttar via. È vero che, in compenso, ora sono divenuto padrone del mio. Abbiamo fatto quasi un capitombolo, sai? Per miracolo la miseria non ha battuto alla nostra porta. Ma, in compenso, ti ripeto, ora sono libero e padrone…
– … del tuo. Sta bene. Ma se non sei più ricco, perché sei venuto a Roma?
– Vedrai! – sospirò Luca, socchiudendo di nuovo gli occhi misteriosamente. – È la mia città. L’ho sempre sognata.
– Amico Pelletta, ho un vago sospetto, – riprese Santi Currao. – Ti fiuto: tu puzzi. Di’ la verità, sei più miserabile di me?
– No, perché? – fece Luca, istintivamente; subito si riprese: – Forse no…
– Questo tuo, di’ un po’, a quanto ammonta?
– Rendituccia modesta, ma sicura: cinque lire al giorno. Mi bastano.
Santi Currao sghignò forte, squassando la testa.
– Centocinquanta lire al mese?! E che te ne fai?
Arrivati in fondo al viale, il Currao si cacciò nel portoncino di casa e, prima di mettersi a salire, disse a Luca:
– Ti prego di parlare sottovoce.
Un camerotto squallido, sudicio, in disordine, con un letto in un angolo, non rifatto chi sa da quanti giorni; un tavolino rustico, senza tappeto, presso l’unica finestra; un attaccapanni appeso alla parete; seggiole impagliate; un lavamano.
Santi Currao accese il lume sul tavolino, e invitò l’amico a sedere.
– Se vuoi lavarti, lì c’è l’occorrente.
– E… non hai uno specchio? – domandò afflitto e reso timido da tanta miseria, Luca, guardando in giro le pareti polverose.
– Pago dodici lire al mese, amico Pelletta, e non sono rispettato. Do qualche lezione di musica, e non mi pagano; viene la fine del mese, e io non pago; e più non pago, e meno sono rispettato. Avevo lì, presso l’asciugamani, uno specchio, se non m’inganno. Se lo sono portato via.
– E come fai per guardarti? – domandò Luca, costernato.
– Non ci penso neppure!
– Fai male, Santi! Perché, il fisico…
– Il vero fisico è il pane, amico Pelletta! – sentenziò bruscamente il Currao.
– Ah, nego, nego… – fece Luca. – Non solo pane vivit homo…
– E intanto, – concluse Santi, – prima base, ci vuole il pane. Non dire sciocchezze e, per giunta, in latino.
Rimasero un buon pezzo in penoso silenzio. Santi Currao sedette presso il tavolino, con la testa bassa e gli occhi fissi sul pavimento. Luca Pelletta dritto sulla vita, accigliato, lo esaminava.
– E dunque… la tua signora?
Il Currao alzò il testone e guardò un pezzo negli occhi l’amico. – E dalli con la mia signora! – Si scoprì il capo solennemente; si batté più volte l’ampia fronte rischiarata dal lume:
– Vedi? Cervo! – esclamò; e le grosse pallide labbra, allargandosi a un orribile ghigno, scoprirono i denti serrati, gialli dai lunghi digiuni.
Luca Pelletta lo guardò perplesso, quasi consigliandosi con l’espressione del volto del Currao, se dovesse riderne o no.
– Cervo! cervo! – ripeté Santi, confermando col capo più volte di seguito. – E non l’ho cacciata io, sai! Se n’è andata via lei, da sé. Io sono così; – aggiunse, afferrandosi con ambo le mani la barbaccia incolta su le gote, – ma mia moglie era una bella e rispettabilissima signora! La povertà, amico Pelletta. Senza la povertà, forse non l’avrebbe fatto. Non era poi tanto cattiva, in fondo. È vero che io per lei fui marito esemplare: le portavo tutto quel po’ che guadagnavo… tranne qualche soldo per mantenermi l’occhio vivo. Ma è pur vero che l’uomo, per quanto porco sia, vale sempre mille volte più di qualunque donna. Dici di no, amico Pelletta? Ebbene, chi sa? forse no. Non si può dire. La povertà, capisci? Che fa il ferro al fuoco? Si torce. Ebbene, e tu, marito, arrivi fino al punto di dire a tua moglie: M’hai fatto le corna? T’hanno procacciato pane? Sì? E allora hai fatto benone! Danne un pezzetto anche a me!
Si alzò, e si mise a passeggiare per la camera, col testone sul petto e le mani dietro la schiena.
– E ora… che fa? – domandò timidamente Luca.
Il Currao seguitò a passeggiare, come se non avesse udito la domanda.
– Non sai dov’è?
Il Currao si fermò davanti al lume:
– Fa la puttana! – disse. – Non consumiamo petrolio inutilmente! Lavati, se lo credi proprio necessario. E usciamo. Non vuoi cenare?
– No… – rispose Luca. – Ho desinato a Napoli piuttosto bene.
– Non ci credo.
– Parola d’onore. Di’ un po’, come ti sembro?
– Compassionevole, amico Pelletta!
– No, dico! ti pare che stia male in faccia?
– No: ancora non pare, – fece Santi.
– Eh sì, – affermò Luca – è un fatto che, a me, il mangiar poco mi conferisce. Ma forse sono un po’ troppo pallido questa sera, no?
– Sei pallido, perché sei povero! – raffibbiò il Currao. – Via, usciamo! Tu vuoi certo vedere il Colosseo al lume di luna.
Luca accettò con entusiasmo la proposta, e s’avviarono in silenzio.
Davanti alla soglia di casa, il Pelletta trattenne per un braccio l’amico, poi gli batté la spalla con una mano e gli disse, socchiudendo gli occhi:
– Santi, risorgeremo! lascia fare a me!
– Statti quieto… – brontolò il Currao.
E tutti e due si perdettero nell’ombra.