Davanti allo specchio, in gran fretta, tutta impacciata tra tante bocce boccette pomate calamistri, la signorina Milla finiva d’acconciarsi i capelli, quando udì il campanello della porta.
– Ih che furia!
E corse a chiuder l’uscio della camera che dava nella saletta d’ingresso. Appena chiuso, lo riaprì e, sporgendo il capo, disse piano alla servetta che accorreva alla scampanellata:
– Fa’ passare, Tilde. E di’ che aspetti un momentino.
Ritornata davanti allo specchio, si sorrise.
Un po’ di sangue le era affluito alle guance; niente, a confronto delle caldane d’una volta; ma pur quel poco, ecco, le rianimava tutto il visetto sciupato di vecchia bambola dagli occhi troppo grandi, dal nasino troppo piccolo.
E nel volto così rianimato, non le stava ora quasi per grazia quel ciuffetto di capelli bianchi rialzato su la fronte, lì proprio nel mezzo? La signorina Milla alzò la mano per carezzarselo col pettine. Il gesto però le rimase a mezzo.
Chi parlava nella saletta d’ingresso?
Non poteva esser lui, di certo. Quando entrava lui, tremava il pavimento.
Poco dopo, Tilde, con la scuffietta in capo e il grembiulino bianco su la veste nera, venne a presentarle un biglietto da visita. La signorina Milla vi lesse un nome sconosciuto: Maestro Icilio Saporini; guardò accigliata la servetta.
– E chi è?
– Un vecchietto piccolo piccolo, pulito pulito.
– Un vecchietto? E che vuole? – tornò a domandare la signorina Milla, infastidita. – Ma non sai che devo uscire col signor Begler? Credevo che fosse lui. Ora come si fa?
– Posso dirglielo…
– Che vuoi più dirgli adesso? Chi è? che vuole da me?
– Mah! – fece Tilde, stringendosi nelle spalle. – Parla tanto curioso… con un vocino di zanzara… Mi ha chiesto se stava qua la signora Margherita.
– La mamma? – domandò con un sussulto la signorina Milla.
– Già, se era ancora viva, – rispose Tilde. – Io gli ho detto che…
Una nuova scampanellata più forte troncò la risposta.
– Quest’è lui! – scappò detto alla signorina Milla; poi, correggendosi: – il signor Begler.
La servetta sorrise sotto sotto. La signorina Milla richiuse l’uscio. Poco dopo, dal pianoforte del salotto venne una tempesta fragorosa di note: il segnale ansioso d’Isotta nel secondo atto del Tristano. Il signor Begler la chiamava ogni volta cosi.
Accorse. Oh Dio… no, piano, piano! – Ma che piano! Balzando dal seggiolino del pianoforte, il signor Begler le si precipita incontro con le braccia levate, grosso, azzampato, il cappellaccio ancora in capo, ammaccato, rincalcato fino alla nuca. Dalle tese a spera, schizza tondo e irto di peli rossicci il faccione brozzoloso, paonazzo, in cui ghignano impudenti gli occhi.
– E il kappello? senza kappello? Subito il kappello!
La signorina Milla parò le mani in difesa, sorridendo, e nella penombra del salotto, ove oltre al pianoforte erano altri strumenti a corda e varii leggìi da musica, accennò all’altro ospite, di cui ancora il signor Begler non s’era accorto.
Il maestro Icilio Saporini se ne stava tutto ristretto in sé, piccino piccino, lisciandosi con una mano guantata, che non pareva nemmeno, la rada zazzeretta argentea.
– Il maestro… il maestro… – disse la signorina Milla, non ricordandosi più il nome per far la presentazione.
– Saporini Icilio… – suggerì, a due riprese, con un fil di voce il vecchietto, e strisciò una riverenza.
– Saporini, già! Il maestro Icilio Saporini, – ripeté la signorina Milla. – Il violoncellista Hans Begler. S’accomodino.
Ma il Begler:
– Nein, nein! – miagolò, accennando appena appena di togliersi il cappellaccio. – Nein, nein! krazie, pella mia! Niente akkomodo io; fado fia, fado fia! Non voghlio pértere konzerto per fisita questo sigh–nore. Krazie, pella mia! Riferisco, riferisco, karo sigh–nor.
E, inchinandosi due volte goffamente, scappò via a tempesta, com’era venuto.
La signorina Milla, conoscendone la furia, non si provò neanche a trattenerlo; mortificata, contrariata, afflitta, guardò il vecchietto, il quale, venendo così per caso a sapere che ella doveva recarsi a un concerto con quel signore, cominciò a storcersi tutto come un cagnolino, per scongiurarla d’andare: per carità, non si sarebbe dato pace, altrimenti, d’esser capitato in un momento così poco opportuno.
– Sù, sù, il cappellino, il cappellino. Raggiungeremo il signore con una vettura. La accompagnerò io fino alla sala. Mi faccia questa grazia, per carità!
– Ma io vorrei prima sapere…
– Dopo, dopo…
– Lei ha chiesto della mamma, – disse la signorina Milla. – Ma non c’è più la mamma!
– Eh, me… me l’immaginavo, – balbettò il vecchietto. – Non dovrei esserci più, veramente, neanche io… Ottantun anni!
– Ottantuno? – esclamò la signorina Milla. – La mamma è morta da sei anni.
E, levando una mano a indicare il ritratto fotografico appeso alla parete:
– Eccola là.
Il maestro Icilio Saporini alzò gli occhietti che quasi gli sparivano fra le borse delle pàlpebre, e rimase un pezzetto a rimirare quel ritratto di vecchia incuffiata, che evidentemente non gli diceva nulla: scosse il capo, e con un sorriso afflitto cominciò a balbettare:
– No… non mi… non mi… Quella, no… eh!… io, sa? io… no, no!
Così balbettando, con due dita si stirava il colletto, come se tutt’a un tratto se ne sentisse serrar la gola. Diede un’ingollatina e riprese:
– Lei, lei piuttosto… ecco, sì, lei… me la… me la richiama viva.
– Io? proprio? – domandò meravigliata la signorina Milla. – Ma no, sa! Io non somiglio punto alla mamma… Ma che!
Il vecchietto scosse un dito.
– Non può saperlo, – bisbigliò. – Lei guarda ai lineamenti.. Ma la luce degli occhi?… le mosse?… il sorriso?… la voce?… Io ho conosciuto la sua mamma molto, molto prima di lei, signorina, in ben altri tempi! E lei non può… non può comprendere quello che io provo in…
Non poté seguitare; trasse un fazzoletto e se lo recò agli occhi. Fu un momento. Si riprese subito e costrinse di nuovo la signorina Milla a prendere e a mettersi il cappellino per arrivare a tempo al concerto. In vettura, le avrebbe dato notizia di sé.
Che notizia? La signorina Milla ne poté capire ben poco, quel giorno; e ne incolpò la sua ansia d’arrivare al concerto’ l’esilissima voce del vecchietto, il frastuono della vettura. Ma poi? Da altre notizie raccolte riposatamente, nel silenzio del salottino, con tutta la buona volontà, non riuscì mai a comporsi chiaramente la storia (che voleva parer molto avventurosa e piena di strane vicende) di quel vecchietto. Il quale, mettendosi ogni volta a parlare di sé, pareva non sapesse da qual parte rifarsi, come se tuttavia si sentisse lontanissimo, e per arrivare a dir chi era dovesse fare un cammino infinito, attraverso a vie remotissime, intricate, irte d’intoppi, di siepi e tra una folla innumerevole che lo tirava di qua, di là, e gli sbarrava il passo di continuo.
– Eh, ma poi… – sospirava – poi c’era… sicuro… e quando io… sì, perché quello là, come si chiamava?… quello là… no, veramente fu un altro… quell’altro, prima che…
Si confondeva, si smarriva fra tanti minuti particolari, citando nomi ignoti, luoghi spariti o mutati, testimonianze di cose morte, che accompagnava con esclamazioni e sorrisi e gesti, come se a mano a mano vedesse e toccasse quel che diceva, o piuttosto che bisbigliava.
Certo era questo, che aveva ottantun anni; che a poco più di venti, cioè nel 1849, alla caduta della repubblica, aveva abbandonato Roma e l’Italia, e che vi ritornava adesso, dopo circa sessanta anni passati in America, a New York.
Teneva molto a far comprendere che si era compromesso allora più d’un po’ nei moti rivoluzionarii… Eh, sì, dopo il famoso voltafaccia!
– Il voltafaccia di chi?
– Come di chi? Ma di Pio IX, santo Dio!
La signorina Milla lo guardava con gli occhi di bambola, sbarrati. Sentendo ricordare tanti fatti, e personaggi, tutti così uno più « famoso » dell’altro, s’era accorta ch’era proprio deplorevole la sua ignoranza di storia contemporanea. E forse per questo non riusciva a intendere come e perché si fosse compromesso il maestro Icilio Saporini.
C’era di mezzo la musica, senza dubbio: un certo inno patriottico. E c’era di mezzo anche un certo zio Nando. Sicuro. Uno zio Nando, rientrato in Roma nel 1846, dopo il famoso editto…
Altro sbarramento d’occhi della signorina Milla. Che editto? Ma quello del perdono, perbacco! il famoso editto del perdono, col quale Pio IX, tra tanti delirii di entusiasmo, aveva dato principio al suo regno, accordando piena amnistia a tutti i condannati ed esuli politici dello Stato pontificio.
– E anche allo zio Nando?
– Anche allo zio Nando, sicuro!
Ora, in casa di questo zio Nando pareva si raccogliessero i più ferventi patrioti d’allora. Il guajo era che il maestro Icilio Saporini li chiamava tutti per nome, questi ferventi patrioti. Diceva:
– Pietro… eh, Pietro… valente medico, valente poeta…
Chi fosse questo Pietro, valente medico, valente poeta, la signorina Milla dovette stentare un pezzo a capire. Ma Pietro Sterbini, santo Dio! il dottor Pietro Sterbini, quello della famosa congiura contro Pellegrino Rossi!
– Ecco, sì… fu Pescetto che gli diede prima un urtone, un semplice urtone, qua, nel vestibolo della Cancelleria, Pescetto, cioè… come si chiamava di nome? Filippo… no, Pippo era un altro della congiura… Eh sì, Pippo!… Pippo Trentanove… Pescetto si chiamava Antonio Ranucci. Sì, ecco: Antonio, un urtone; e Giggi, Luigi Brunetti, figlio di Ciceruacchio, prima un pugno in faccia e poi, là, una coltellata alla gola… Ma chi li aveva messi sù, la sera del 14, all’osteria del Fornajo, a Ripetta? Lui, Pietro, Pietro Sterbini; mentre la polizia si aspettava la botta da quelli della salita di Marforio congiurati per ridere, i fratelli Facciotti, Gennaro Bomba, Salvati e Toncher, che faceva la spia. Ma erano tutti… sa? come tante girandole apparecchiate, erano; e lui, Pietro. Pietro era la colombina che le incendiava tutte.
Così raccontava il maestro Icilio Saporini col suo vocino di zanzara. E quel Pietro entrava in tutti i suoi racconti. Già alla signorina Milla pareva proprio di potergli stringere la mano, a Pietro, e farlo sedere lì, su una poltroncina del salotto.
Neanche a dirlo, era dovuta anche a Pietro l’unica e non ben chiara compromissione del maestro Icilio Saporini negli affari politici dal 1846 al 1849. Sì, perché Pietro per la famosa ricorrenza del 21 aprile 1846, natale di Roma, dovendosi tenere una gran festa alle Terme di Tito, sù all’Esquilino, per inneggiare al divino Pio IX, esaltato allora come secondo fondatore dell’eterna città, Pietro, valente medico, valente poeta, aveva composto un bellissimo inno, breve, di due strofette, con un ritornello:
Eri caduta; lévati,
Madre di tanti eroi…
Se le ricordava ancora parola per parola il maestro Icilio Saporini! E il ritornello:
Tu vivi in Campidoglio,
Tu sei regina ancor.
Basta: era venuto a leggerlo (Pietro) in casa di zio Nando, questo suo inno, pochi giorni avanti.
Dice (sempre lui, Pietro):
– Tu, Icilio! – dice – ti sentiresti di musicarlo? – dice. – Lo canteranno – dice – gli studenti.
Il maestro Icilio Saporini aveva, sì e no, diciott’anni, allora; non aveva ancor preso il diploma all’Accademia ma il sentimento stesso… eh, tutta l’anima gli cantava, in quei giorni! Ci s’era messo, e in una notte lo aveva musicato.
Se non che Pietro… un vero tradimento! Dice:
– Figliuolo mio, Magazzari, il maestro Magazzari s’è profferto – dice – di musicarlo lui!
E il 21 aprile alle Terme di Tito su l’Esquilino, alla presenza di ottocento convitati, era stato cantato l’inno musicato dal Magazzari
Ma allora? Anche ammesso che potesse considerarsi come una seria compromissione politica l’aver musicato un inno, quando ancora Pio IX si compiaceva degli osanna dei liberali, il Magazzari, se mai, non lui poteva essersi compromesso… Ma! La signorina Milla non poté capirci più che tanto.
Del maestro Magazzari ella aveva sentito parlar più volte dalla madre che fino agli ultimi anni aveva serbato memoria di tutti i fatti e gli uomini, specialmente del mondo musicale romano d’allora: il nome del maestro Icilio Saporini non era venuto mai fuori dalle labbra di sua madre. E dunque agli occhi della signorina Milla il maestro Icilio Saporini rimaneva non solo nel presente, nella Roma d’oggi, uno sperduto che non riusciva a trovar posto; ma anche nel passato, in quel mondo d’allora, com’ella attraverso le notizie e le memorie della madre se l’era immaginato. Neanche in quel mondo ella riusciva a trovargli posto; certo perché egli non aveva saputo farselo né nel cuore, né nella memoria della madre. Come niente era adesso, niente era stato di certo anche allora.
A dir vero, il Saporini non si dava alcun vanto. Una punta d’invidia e di gelosia la mostrava ancora per il Magazzari; e pregato insistentemente dalla signorina Milla sonò, o meglio, accennò sul pianoforte una frase… non tutto l’inno famoso… la frase che accompagnava i due versi della seconda strofetta di Pietro:
A te lo scettro, il soglio,
A te l’eterno allor…
ma soltanto per far vedere quant’era più solenne, più maestosa, più ispirata di quella del Magazzari. E basta.
Che aveva poi fatto là, in America, per sessant’anni di fila? Eh, da quella zazzeretta argentea era facile indovinarlo! Il maestro di musica italiano, come lo intendono degli italiani, tutti i signori forestieri, aveva fatto! Cioè, uno che strimpelli sulla chitarra, zazzeruto e con gli occhi imbambolati, l’antica e da noi dimenticata canzonetta di Santa Lucia:
Sul mare luccica
l’astro d’argento…
E, a giudicar dall’apparenza, la professione del maestro di musica italiano doveva aver fruttato bene; il maestro Icilio Saporini doveva aver raccolto una discreta sommetta, con la quale aveva potuto attuare il sogno, chi sa quanto vagheggiato là, di venire a chiudere gli occhi in patria. Ma forse, povero vecchiettino, si figurava di ritrovar Roma quale l’aveva lasciata nel 1849.
Roma, la sua Roma, quella che viveva per lui, nei suoi ricordi lontani, era invece sparita; scomparsi, morti, tutti i conoscenti della sua generazione.
Arrivando da lontano, da tanto lontano, non s’immaginava certo di dover trovarsi davanti a un’altra lontananza irraggiungibile: quella del tempo.
Dov’era giunto?
Dalla Roma d’oggi a quella della sua gioventù, quanto cammino!
E s’era messo, appena arrivato, per questo cammino, a ritroso, con l’animo pieno d’angoscia, a cercar nella Roma d’oggi le tracce dell’antica vita.
Ora, passando per via del Governo Vecchio, s’era ricordato che vi stava il maestro Rigucci al numero 47, il maestro Rigucci dell’Accademia, che aveva una figliuola tanto bella, Margherita, sonatrice di arpa esimia… Chi sa! Poteva esser viva ancora! Ma era possibile che stésse ancora lì di casa? Era già una fortuna aver ritrovato, nella vecchia via, ancora in piedi, la casa. Non solo le case, ma anche tante e tante vie erano scomparse! Aveva salito la scala, solamente per il piacere di rimettere il piede su quei gradini della scala antica, umida, semibuja. Sul pianerottolo del secondo piano si era fermato e, guardando alla porta di mezzo… ah che balzo gli aveva dato il cuore in petto! La vecchia targa ovale, di rame, che recava il nome di Rigucci, era ancora li, sotto a un’altra, meno vecchia, col nome di Donnetti. E dunque stava li ancora? ah, lui, il maestro, no di certo; ma lei, Margherita? E aveva tirato il pallino del campanello.
Eccola là, Margherita, la fanciulla tanto, tanto bella, esimia sonatrice d’arpa: quella vecchietta incuffiata, rinsecchita del ritratto…
Ma che era stata per lui un giorno quella vecchietta?
La signorina Milla aveva veduto commuoversi fino alle lagrime il maestro Icilio Saporini, guardando quel ritratto, ma tuttavia credette di poter concludere che sua madre, da giovane, non era stata mai altro per lui che la figlia del professor Rigucci dell’Accademia. Forse, si, egli era stato qualche volta nella casa del nonno, perché sapeva dire di tanti che vi convenivano; delle famose serate musicali che vi si tenevano in onore dei più celebrati maestri del tempo; delle fervide simpatie di cui godeva Margherita Rigucci, allora giovinetta e bellissima. Fors’anche, studentello, chi sa! s’era innamorato anche lui della figlia del professore; ma innamorato per conto suo, senza lasciare alcun ricordo, neppure del nome, in lei.
La commozione si spiegava forse così: che in quella casa finalmente, dopo tanti giorni di vana e amarissima ricerca, il povero vecchietto sperduto era riuscito a rintracciare un vestigio della vita antica, un posticino ove sedere, dopo tanto cammino, senza sentirsi estraneo del tutto.
Ma il piacere d’aver ritrovato questo posticino, questo cantuccio dei ricordi, cominciò in breve a essergli amareggiato da quel pianoforte li, da quegli altri strumenti musicali, che lo intronavano, che lo intontivano addirittura, con certe zuffe di suoni, ire di Dio, che facevano andare in visibilio tutti quei signori, stranieri per la maggior parte, che si riunivano nel salotto antico del
maestro Rigucci, del maestro Rigucci adoratore di Rossini! E più di tutti facevano andare in visibilio la signorina Milla Donnetti, la nipote del maestro Rigucci, la figlia di Margherita Donnetti–Rigucci!
Non diceva nulla, ma gli pareva una vera profanazione quella musica, lì, in quel salotto, che sapeva le divine melodie della più schietta musica italiana. Non diceva nulla, si faceva anzi più piccino che poteva, su la seggiola, e di tratto in tratto levava la manina guantata a lisciarsi, dietro, la zazzeretta, e alzava gli occhi al ritratto della sua vecchia Margherita.
La signorina Milla lo vedeva con la coda dell’occhio e frenava a stento una risatina. Una sera gli sedette accanto e gli domandò:
– Non le piace? Non si diverte?
– Dico la verità, – le rispose piano, con un sorrisetto, – io… io guardo là… quella mia vecchietta là…
– Me ne sono accorta!
– Sì? La guardo e… sento cantar Rosina del Barbiere, sento cantare Amina…
– Eppure, sa? – gli disse allora la signorina Milla. La mamma con gli anni si era… evoluta, convertita, eh sì! convertita alla musica nuova.
– A questa? – chiese così sbigottito il vecchietto, che la signorina Milla non poté frenare questa volta la risata.
– Tradimento?
– Ma… ecco… scusi… – rispose egli, tutto imbarazzato. – Capisco, capisco bene che possa piacere a codesti signori forestieri: è la loro musica; la sentono così, amen! Ma noi? Abbiamo la nostra, le glorie nostre: Paisiello, Pergolesi, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi…
Quella bufera del signor Begler, a cui la mattina seguente la signorina Milla riferì le amare rimostranze del vecchiettino, quando fu la sera, per fargli uno scherzo a suo modo, d’accordo con gli amici che componevano il quartetto, interruppe, a un certo punto, non so che languida diavoleria del Ciaicovski che pareva l’incubo d’un malato che ci avesse i cani in corpo, lasciò il violoncello, saltò al pianoforte e attaccò furiosamente l’aria del Rigoletto: “Questa o quella per me pari sono”.
Tutti scoppiarono a ridere. Il maestro Icilio Saporini si guardò prima attorno stordito, poi impallidì: forse sarebbe riuscito a dominarsi, se il Begler, rigirandosi di furia sul seggiolino a vite del pianoforte, non avesse gridato a tutti quelli che ridevano:
– Ma perché? Ma pellissima musika da persaghlieri questa! Pellissima! pellissima!
– La musica di Verdi, musica da bersaglieri? – disse allora il vecchietto, levandosi in piedi, tutto fremente d’indignazione nell’esigua personcina. – Ma io allora ho l’onore di dirle che lei, caro signore, non capisce nulla! che lei non ha… non ha…
E con la mano, poiché la voce gli mancò, si mise a picchiarsi il petto, dalla parte del cuore.
– Vorrei aver vent’anni di meno, – disse poi, mostrando le dita delle manine che gli tremicchiavano, per farle sentire la musica vera…
– Col pirolì? – domandò il Begler. – Qua, qua, fenga qua… lei, pella mia.
E andò a strappare dalla seggiola la signorina Milla; la fece sedere a forza al pianoforte, e le impose:
– Sonate musika fostra!… tutta musika fostra!… io skommetto di mettere sempre in tutta musika fostra il pirolì.
E fece con tre dita uno sgambetto sui cantini del pianoforte.
– Così!
Risero tutti di nuovo. Il maestro Icilio Saporini sperò per un attimo che la signorina Milla, la nipote del maestro Rigucci, non si prestasse a quello scherzo indegno. Felicissima invece, la signorina Milla si diede a sonare questo e quel pezzo delle opere italiane più famose; e pareva che scegliesse apposta quelli in cui più facilmente quel tedescaccio potesse cacciare il suo pirolì. E, ogni volta, uno scroscio di risa. Mira, o Norma, pirolì… ai tuoi ginocchi, pirolì.
Il vecchietto dovette fare un violento sforzo su se stesso per non scappar via; finse di ridere anche lui, per non dare a vedere d’aversi a male di quello scherzo; andò parecchie altre sere, puntuale, alle riunioni in casa della signorina Donnetti; poi diradò le visite, con la scusa della fredda stagione e dell’età avanzata; infine non andò più.
Ora un giorno la signorina Milla, cercando tra le vecchie carte della mamma, scoprì un foglio di musica ingiallito, spiegazzato, scritto a mano; credette dapprima fosse qualche bozza del nonno, e la buttò lì; finita la ricerca, rimise nello scaffale tutto il fascio delle carte; ma quel foglio di carta… come mai? eccolo lì di nuovo. Come se avesse voluto restar fuori. Lo guardò meglio, e quale non fu la sua sorpresa nel trovarvi un’arietta del maestro Icilio Saporini, allora forse non ancora maestro, un’arietta dedicata alla mamma, alla divina Margherita Rigucci, su i tenui versi del Metastasio:
Nelle luci
Tue divine
Pace alfine
Trova il cor…
Corse al pianoforte e la lesse. Oh, non era niente: stentatuccia, pretenziosetta; ma pure con certe ingenuità care, che facevano ridere e che commovevano a un tempo. Forse la mamma aveva cantato, da giovane, quell’arietta. Si provò a canticchiarla anche lei:
Nelle luci… nelle luci…
Nelle luci tue divine
Pace alfine
Pace alfine
Pace alfine trova il cor…
Lo stesso giorno, mandò Tilde a chieder notizia del vecchiettino. Egli le aveva detto che, dopo la lunga ricerca, aveva finalmente trovato stanza in una vecchia casa di via Cestari, e le aveva descritto minutamente questa stanza, la padrona di casa che aveva quasi i suoi anni, i mobili antichi, un pianofortino nella stanza accanto, buono da sonarci ancora… la musica vecchia, almeno.
Tilde, di ritorno, le annunziò che il vecchietto era infermo e che da parecchie settimane non usciva più di casa. La signorina Milla si propose di andarlo a visitare; se lo propose per otto giorni di seguito; ma, purtroppo, non trovò mai un momentino di tempo. Mandò di nuovo Tilde dopo gli otto giorni; e Tilde questa volta venne a dirle che il povero vecchiettino era proprio per andarsene.
C’era a visita quel giorno il signor Begler; pur tuttavia la signorina Milla si commosse alla notizia. Nella commozione, ebbe un pensiero gentile e lo comunicò al signor Begler. Il signor Begler, con la boccaccia atteggiata al perpetuo ghigno muto, lo approvò. Andarono insieme alla casa del vecchietto; ma né l’uno né l’altra entrarono nella camera, ov’egli giaceva quasi inerte e come di cera su i guanciali; si fermarono nella stanza ov’era il pianofortino; la signorina Milla posò sul leggìo quel foglio di musica ingiallito, rinvenuto tra le carte della mamma, e si mise a cantar piano quell’antica arietta, quasi con voce che arrivasse da lontano:
Nelle luci
Tue divine
Pace alfine
Trova il cor…
Il maestro Icilio Saporini, ai primi accordi, schiuse gli occhi e guardò la vecchia padrona di casa, che sedeva vigile a piè del letto. Riconobbe la sua arietta d’un tempo? Forse no. Ma la voce… quella voce…
Bisbigliò qualcosa, con gli occhi velati di lagrime. Forse un nome:
– Margherita.
A un tratto, mentre la voce di là seguitava a modular dolcemente: Nelle luci… nelle luci tue divine… pace alfine… pace alfine… pace alfine trova il cor… scattò stridulo, nei cantini, un beffardo PIROLÌ.
Il vecchietto ebbe un sussulto; come colpito, riabbandonò il capo che aveva sollevato appena dai guanciali, quasi attratto dal canto. E non lo rialzò più.