DIALOGHI TRA IL GRAN ME IL PICCOLO ME di Luigi Pirandello | Testo

(Il Gran Me e il piccolo me rincasano a sera da una scampagnata, nella quale furono tutto il giorno in compagnia di gentili fanciulle, a cui l’inebriante spettacolo de la novella stagione ridestava certo, come gli occhi loro e i sorrisi e le parole palesavano, di dolci, ineffabili voglie segretamente il cuore. Il Gran Me è ancora come preso da stupore e in visione dei fantasmi creatigli nello spirito dal diffuso incantesimo della rinascente primavera. Il piccolo me è invece alquanto stanco, e vorrebbe lavarsi le mani e la faccia e quindi andare a letto. La camera è al bujo. Il tessuto delle leggiere cortine alle finestre si disegna nel vano sul bel chiaro di luna. Viene dal basso il murmure sommesso delle acque del Tevere e, a quando a quando, il cupo rotolio di qualche vettura sul ligneo ponte di Ripetta.)
– Accendiamo il lume?
– No, aspetta… aspetta… Restiamo ancora un tratto così, al bujo. Lasciami goder con gli occhi chiusi ancora un po’ il sole di quest’oggi. La vista dei noti oggetti mi toglierebbe all’ebbrezza soavissima, da cui sono ancora invaso. Sdrajamoci su questa poltrona.
– Al bujo? Con gli occhi chiusi? Io m’addormento, bada! Non ne posso più…
– Accendi pure il lume, ma sta’ zitto, zitto per un momento, seccatore! Sbadigli?…
– Sbadiglio…

(Il piccolo me accende il lume sul tavolino, e subito dopo fa un’esclamazione di sorpresa.)
– Oh, guarda! Una lettera… È di lei!
– Da’ a me… Non voglio sentir nulla, per ora!
– Come! Una lettera di lei…
– Da’ a me, ti ripeto! la leggeremo più tardi. Ora non voglio essere seccato.
– Ah sì? E allora ti faccio notare che tutt’oggi con quelle ragazze ha; detto e fatto un mondo di sciocchezze, e che forse mi hai compromesso! – Io? Sei pazzo! Che ho fatto?
– Domandalo a gli occhi e alla mano. Io so che mi son sentito tra le spine, durante tutto il giorno; e ancora una volta ho fatto esperienza che noi due non possiamo a un tempo esser contenti.
– E di chi la colpa? Mia forse? Io ho creduto di farti piacere piegandomi jersera ad accettar l’invito della scampagnata. Non ti sei sempre lagnato ch’io non abbia veruna cura di te, della tua salute; che io ti costringa a star sempre chiuso con me nello scrittojo tra i libri e le carte, solo, senz’aria e senza moto? Non ti sei sempre lagnato che io conturbi finanche il tuo desinare e le poche ore concesse a te con i miei pensieri, le mie riflessioni e la mia noja? E ora invece ti lagni che mi sia obliato un giorno nella compagnia delle gentili fanciulle e nella letizia della stagione? Che pretendi dunque da me, se non ti vuoi in alcun modo accontentare? Avvolgi, avvolgi, avvolgi, sfili la ferza e la trottola gira… Quando parli, chi ti può tener dietro? Sai far bianco il nero e nero il bianco. L’esserti tutt’oggi obliato sarebbe stato un bene per rne, ove non ti fossi troppo obliato… troppo, capisci? E questo è il male, e deriva dal modo di vita che tieni e che mi fai tenere. Troppo imbrigliata è la nostra gioventù; e appena le allenti un po’ il freno, ecco, ti piglia subito la mano, e allora, o sono sciocchezze o son follie, che più non si convengono a noi, che abbiamo ormai un impegno sacrosanto da mantenere. Dammi la lettera, e non sbuffare!

– Quanto rni secchi, Geremia! Ti sei fitto in mente di prender moglie, e da che m’hai con insoffribili lamentele persuaso ad acconsentire, non convinto, sei divenuto per me supplizio maggiore! Or che sarà quando avremo in casa la moglie?
– Sarà la tua e la mia fortuna, mio caro!
– Io per me l’ho detto e ti ripeto che non voglio saperne. Sia pure la tua fortuna! non voglio immischiarmici.
– E farai bene, fino a un certo punto. Tu sei venuto sempre a guastare ogni disegno mio. Facevo due anni addietro con tanto diletto all’amore con nostra cuginetta Elisa… ricordi?… ricorrevo a te per qualche sonettino o madrigale, e tu coi tuoi versi, ingrato, me la facevi piangere… Io ti dicevo: Zitto, lasciamela stare! Che vuoi che capisca dei tuoi fantasmi e delle tue sbalestrate riflessioni? Come vuoi che il suo piedino varchi la porta del tuo sogno? Quanto sei stato crudele! L’hai confessato in versi tu stesso dappoi: ho sfogliato le tue carte e ho trovato alcune poesie in lode e in pianto della povera Elisa… Or che intendi fare con quest’altra? Rispondi.
– Nulla. Non le dirò mai una parola; lascerò sempre parlar te, sei contento? Purché tu mi prometti che ella non verrà mai a disturbarmi nel mio scrittojo e non mi costringerà a dirle quel che penso e quel che sento. Prendi moglie tu, insomma, e non io…
– Come ! E se tu intendi conservare integra la tua libertà, come potrò io aver pace in casa con lei?
– Io voglio la libertà de’ miei segreti pensieri. Sai che l’amore non è mai stato, né sarà mai un tiranno per me: ho sempre, infatti, lasciato a te l’esercizio dell’amore. Fa’ dunque, rispetto a ciò, quel che meglio ti pare e piace. Io ho da pensare ad altro. Tu prendi moglie, se lo stimi proprio necessario.
– Necessario, sì, te l’ho detto! Perché, se rimango ancora un po’ soltanto in poter tuo, mi ridurrò senza dubbio la creatura più miserabile della terra. Ho assoluto bisogno d’amorosa compagnia, d’una donna che mi faccia sentir la vita e camminare tra i miei simili, or triste or lieto, per le comuni vie della terra. Ah, sono stanco, mio caro, d’attaccar da me i bottoni alla nostra camicia e di pungermi con l’ago le dita, mentre tu navighi con la mente nel mare torbido delle tue chimere. A ogni brocco nel filo tu gridi: Strappa! mentr’io, poveretto, con l’unghie m’industrio pazientemente di scioglierlo. Ora basta! Di noi due io son quegli che deve presto morire: tu hai dal tuo orgoglio la lusinga di vivere oltre il secolo; lasciami dunque godere in pace il poco mio tempo! pensa: avremo una comoda casetta, e sentiremo risonar queste mute stanze di tranquilla vita, cantar la nostra donna, cucendo, e bollir la pentola a sera… Non son cose buone e belle anche queste? Tu te ne starai solo, appartato, a lavorare. Nessuno ti disturberà. Purché poi, uscendo dallo scrittoio, sappi far buon viso alla compagna nostra. Vedi, noi non pretendiamo troppo da te; tu dovresti aver con noi pazienza per qualche oretta al giorno, e poi la notte… non andar tardi a letto…
– E poi? … Diceva Carneade, il filosofo, entrando nella camera della moglie: Buona fortuna! Facciamo figliuoli. Li manderete a scuola da me?
– No, questo no, senti! Lascia allevare a me i figliuoli che verranno: potresti farne degl’infelici come te. Ma su ciò disputeremo a suo tempo. Ora dammi ascolto: addormentati! lasciami legger la lettera della sposa, e poi risponderle. Già la stanchezza m’è passata.
– Vuoi che ti detti io la risposta?
– No, grazie! Addormentati… Basto io solo. Ho imparato, praticando con te, a non commettere errori. Per altro, l’amore non ha bisogno della grammatica. E tu saresti capace d’arricciare il naso notando che la nostra sposa scrive collegio con due g.