Titolo: La fabbrica del panico
Autore: Stefano Valenti
Genere: Romanzo
Pagine: 128
Editore: Narratori Feltrinelli
Acquista ora su AMAZON.it
In breve:
La quinta elementare non è uno strumento adeguato per comprendere il mondo, soprattutto a diciannove anni, quando il mondo si presenta in forma di fabbrica.
L’angoscia che ha contraddistinto la vita di mio padre e l’ha condizionata, senza incontrare ostacoli sulla sua vita, né parole, né occasioni per essere contenuta, è traboccata, ha allagato la sua anima, si è radicata nella sua mente, ha distrutto il suo corpo. Era n’angoscia incontenibile, che gonfiava il petto, avanzando spavalda a gambe divaricate.
La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi nella fabbrica. E da quel poi, una vita normale diventa una vita invivibile.
La convinzione di essere stato messo in disparte, di non essere considerato, di vivere in un angolo buio, rendeva la sua vita un perenne esilio. Un esilio volontario, il peggiore dei destini a cui possa essere condannato un essere umano ambizioso. Una sensazione penosa, la più penosa, visitava dunque ogni sua giornata. La sensazione di vergogna per essere stato messo da parte, la sensazioe di non vivere nel cuore del mondo ma nei suoi calcagni, nel suo fondoschiena.
Il libro:
Una valle severa. In mezzo, il lento scorrere del fiume. Un uomo tira pietre piatte sull’acqua. Il figlio lo trova assorto, febbricitante, dentro quel paesaggio. È lì che ha cominciato a dipingere, per fare di ogni tela un possibile riscatto, e lì è ritornato ora che il male lo consuma. Ma il male è cominciato molto tempo prima, negli anni settanta, quando il padre-pittore ha abbandonato la sua valle ed è sceso in pianura verso una città estranea, dentro una stanza-cubicolo per dormire, dentro un reparto annebbiato dall’amianto. Fuori dai cancelli della fabbrica si lotta per i turni, per il salario, per ritmi più umani, ma nessuno è ancora veramente consapevole di come il corpo dell’operaio sia esposto alla malattia e alla morte. Lì il padre-pittore ha cominciato a morire. Il figlio ha ereditato un panico che lo inchioda al chiuso, in casa, e dai confini non protetti di quell’esilio spia, a ritroso, il tempo della fabbrica, i sogni che bruciano, l’immaginazione che affonda, il corpo subdolamente offeso di chi ha chiamato ‟lavoro” quell’inferno. Ci vuole l’incontro con Cesare, operaio e sindacalista, per uscire dalla paura e cominciare a ripercorrere la storia del padre-pittore e di tutti i lavoratori morti di tumore ai polmoni. È allora che il ricordo diventa implacabile e cerca colori, amore, un nuovo destino.
Stefano Valenti nel suo romanzo La fabbrica del panico tratta un tema doloroso, quello delle morti causate dalla contaminazione da amianto, inquadrandolo in un contesto ancora più cupo, quello dello sfruttamento al limite della schiavitù degli operai nell’Italia della seconda metà del ‘900.
La sua è una denuncia intima, portata avanti attraverso l’esperienza di un ragazzo che ha visto il proprio padre morire per un tumore provocato dalle fibra d’amianto. L’ha visto morire mentre inseguiva vanamente un sogno: diventare pittore per riscattare la propria vita, per riprendersi quello spazio nel mondo e quella dignità che la fabbrica gli aveva rubato. E ne ha ereditato la rabbia e l’angoscia, che si sono radicati in lui assumendo la forma di un male oscuro.
La sua è anche una denuncia lucida, mai gridata. Delinea con precisione le condizioni disumane in cui erano obbligati a lavorare gli operai, le continue umiliazioni e minacce che erano obbligati a subire; i duri sacrifici che dovevano sostenere per riuscire a portare a casa uno minimo stipendio. Dà poi voce alle madri ad ai figli di quelli operai, umiliati a loro volta da una sentenza che non vede colpevoli, come se tutto fosse stato inevitabile.
La fabbrica della paura riprende una triste pagina della storia italiana invitando il lettore a riflettere. La macchina su cui lavorava il padre del protagonista gira il mondo passando di fabbrica di fabbrica. La violenta e insensata caccia al profitto ha solo fatto tappa in Italia. Continua ancora oggi in altri stati, sempre alla ricerca di nuovo risorse da sacrificare alla propria causa.