Passata la stazione di Sulmona, Silvestro Noli rimase solo nella lercia vettura di seconda classe.
Volse un’ultima occhiata alla fiammella fumolenta, che vacillava e quasi veniva a mancare agli sbalzi della corsa, per l’olio caduto e guazzante nel vetro concavo dello schermo, e chiuse gli occhi con la speranza che il sonno, per la stanchezza del lungo viaggio (viaggiava da un giorno e una notte), lo togliesse all’angoscia nella quale si sentiva affogare sempre più, man mano che il treno lo avvicinava al luogo del suo esilio.
Mai più! mai più! mai più! Da quanto tempo il fragor cadenzato delle ruote gli ripeteva nella notte queste due parole?
Mai più, sì, mai più, la vita gala della sua giovinezza, mai più, là tra i compagni spensierati, sotto i portici popolosi della sua Torino; mai più il conforto, quel caldo alito familiare della sua vecchia casa paterna; mai più le cure amorose della madre, mai più il tenero sorriso nello sguardo protettore del padre.
Forse non li avrebbe riveduti mai più, quei suoi cari vecchi! La mamma, la mamma specialmente! Ah, come l’aveva ritrovata, dopo sette anni di lontananza! Curva, rimpiccolita, in così pochi anni, e come di cera e senza più denti. Gli occhi soli ancora vivi. Poveri cari santi occhi belli!
Guardando la madre, guardando il padre, ascoltando i loro discorsi, aggirandosi per le stanze e cercando attorno, aveva sentito bene, che non per lui soltanto aveva avuto fine la vita della casa paterna. Con la sua ultima partenza, sette anni addietro, la vita era finita lì anche per gli altri.
Se l’era dunque portata via lui con sè? E che ne aveva fatto? Dov’era più in lui la vita? Gli altri avevano potuto credere che se la fosse portata via con sé; ma lui sapeva di averla lasciata lì, invece, la sua, partendo; e ora, a non ritrovarcela più, nel sentirsi dire che non poteva più trovarci nulla, perché s’era portato via tutto lui, aveva provato, nel vuoto, un gelo di morte.
Con questo gelo nel cuore ritornava ora in Abruzzo, spirata la licenza di quindici giorni concessagli dal direttore delle scuole normali maschili di Città Sant’Angelo, ove da cinque anni insegnava disegno.
Prima che in Abruzzo era stato professore un anno in Calabria; un altro anno, in Basilicata. A Città Sant’Angelo, vinto e accecato dal bisogno cocente e smanioso d’un affetto che gli riempisse il vuoto in cui si vedeva sperduto, aveva commesso la follia di prender moglie; e s’era inchiodato lì, per sempre.
La moglie, nata e cresciuta in quell’alto umido paesello, privo anche d’acqua, coi pregiudizii angustiosi, le gretterie meschine e la scontrosità e la rilassatezza della pigra sciocca vita provinciale, anziché dargli compagnia, gli aveva accresciuto attorno la solitudine, facendogli sentire ogni momento quanto fosse lontano dall’intimità d’una famiglia che avrebbe dovuto esser sua, e nella quale invece né un suo pensiero, né un suo sentimento riuscivano mai a penetrare.
Gli era nato un bambino, e – cosa atroce! – anche quel suo bambino aveva sentito, fin dal primo giorno, estraneo a sé, come se fosse appartenuto tutto alla madre, e niente a lui.
Forse il figliuolo sarebbe diventato suo, se egli avesse potuto strapparlo da quella casa, da quel paese; e anche la moglie forse sarebbe diventata sua compagna veramente, ed egli avrebbe sentito la gioia d’avere una casa sua, una famiglia sua, se avesse potuto chiedere e ottenere un trasferimento altrove. Ma gli era negato anche di sperare in un tempo lontano questa salvezza, perché sua moglie, che non s’era voluta muovere dal paese neanche per un breve viaggio di nozze, neanche per andare a conoscere la madre e il padre di lui e gli altri parenti a Torino, minacciava che, anziché dai suoi, si sarebbe divisa da lui a un caso di trasferimento.
Dunque, lì; funghire lì, stare lì ad aspettare, in quell’orrenda solitudine, che lo spirito a poco a poco gli si vestisse d’una scorza di stupidità. Amava tanto il teatro, la musica, tutte le arti, e quasi non sapeva parlar d’altro: sarebbe rimasto sempre con la sete di esse, anche di esse, sì, come d’un bicchier d’acqua pura! Ah, non la poteva bere, lui, quell’acqua greve, cruda, renosiccia delle cisterne. Dicevano che non faceva male; ma egli si sentiva da un pezzo anche malato di stomaco. Immaginario? Già! Per giunta, la derisione.
Le palpebre chiuse non riuscirono più a contenere le lagrime, di cui s’erano riempite. Mordendosi il labbro, come per impedire che gli rompesse dalla gola anche qualche singhiozzo, Silvestro Noli trasse di tasca un fazzoletto.
Non pensò che aveva il viso tutto affumicato dal lungo viaggio; e, guardando il fazzoletto, restò offeso e indispettito dalla sudicia impronta del suo pianto. Vide in quella sudicia impronta la sua vita, e prese tra i denti il fazzoletto quasi per stracciarlo.
Alla fine il treno si fermò alla stazione di Castellammare Adriatico.
Per altri venti minuti di cammino, gli toccava aspettare più di cinque ore in quella stazione. Era la sorte dei viaggiatori che arrivavano con quel treno notturno da Roma e dovevano proseguire per le linee d’Ancona o di Foggia.
Meno male che, nella stazione, c’era il caffè aperto tutta la notte, ampio, bene illuminato, con le tavole apparecchiate, nella cui luce e nel cui movimento si poteva in qualche modo ingannar l’ozio e la tristezza della lunga attesa. Ma erano dipinti sui visi gonfii, pallidi, sudici e sbattuti dei viaggiatori una tetra ambascia, un fastidio opprimente, un’agra nausea della vita che, lontana dai consueti affetti, fuor della traccia delle abitudini, si scopriva a tutti vacua, stolta, incresciosa.
Forse tanti e tanti s’eran sentiti stringere il cuore al fischio lamentoso del treno in corsa nella notte. Ognun d’essi stava lì forse a pensare che le brighe umane non han requie neanche nella notte; e, siccome sopra tutto nella notte appaion vane, prive come sono delle illusioni della luce, e anche per quel senso di precarietà angosciosa che tien sospeso l’animo di chi viaggia e che ci fa vedere sperduti su la terra, ognun d’essi, forse, stava lì a pensare che la follia accende i fuochi nelle macchine nere, e che nella notte, sotto le stelle, i treni correndo per i piani bui, passando strepitosi sui ponti, cacciandosi nei lunghi trafori, gridano di tratto in tratto il disperato lamento di dover trascinare così nella notte la follia umana lungo le vie di ferro, tracciate per dare uno sfogo alle sue fiere smanie infaticabili.
Silvestro Noli, bevuta a lenti sorsi una tazza di latte, si alzò per uscire dalla stazione per l’altra porta del caffè in fondo alla sala. Voleva andare alla spiaggia, a respirar la brezza notturna del mare, attraversando il largo viale della città dormente.
Se non che, passando innanzi a un tavolino, si sentì chiamare da una signora di piccolissima statura, esile, pallida, magra, in fitte gramaglie vedovili.
– Professor Noli…
Si fermò perplesso, stupito
– Signora… oh, lei, signora Nina? come mai?
Era la moglie d’un collega, del professor Ronchi, conosciuto sei anni fa, a Matera, nelle scuole tecniche. Morto, sì, sì, morto – lo sapeva – morto pochi mesi addietro, a Lanciano, ancor giovane. Ne aveva letto con doloroso stupore l’annunzio nel bollettino Povero Ronchi, appena arringato al liceo, dopo tanti concorsi disgraziati, morto all’improvviso, di sincope, per troppo amore, dicevano, di quella sua minuscola mogliettina, ch’egli come un orso gigantesco, violento, testardo, si trascinava sempre dietro, da per tutto.
Ecco, la vedovino, portandosi alla bocca il fazzoletto listato di lutto, guardandolo con gli occhi neri, bellissimi, affondati nelle livide occhiale enfiate, gli diceva con un lieve tentennio del capo l’atrocità della sua tragedia recente.
Vedendo da quei begli occhi neri sgorgare due grosse lagrime, il Noli invitò la signora ad alzarsi e ad uscire con lui dal caffè, per parlare liberamente, lungo il viale deserto fino al mare in fondo.
Ella fremeva in tutta la misera personcina nervosa e pareva andasse a sbalzi e gesticolava a scatti, con le spalle, con le braccia, con le lunghissime mani, quasi scusse di carne. Si mise a parlare affollatamente, e subito le s’infiammarono, di qua e di là, le tempie e gli zigomi. Raddoppiava, per un vezzo di pronunzia, la effe in principio di parola, e pareva sbuffasse, e di continuo si passava il fazzoletto su la punta del naso e sul labbro superiore che, stranamente, nella furia del parlare, le s’imperlavano di sudore; e la salivazione le si attivava con tanta abbondanza, che la voce, a tratti, quasi vi s’affogava.
– Ah, Noli, vedete? qua, caro Noli, m’ha
lasciata qua, sola, con tre figliuoli, in un paese dove non conosco nessuno, dov’ero arrivata da due mesi appena… Sola, sola… Ah, che uomo terribile, Noli! S’è distrutto e ha distrutto anche me, la mia salute, la mia vita… tutto… Addosso, Noli, lo sapete? m’è morto addosso… addosso…
Si scosse in un brivido lungo, che finì quasi in un nitrito. Riprese:
– Mi levò dal mio paese, dove ora non ho più nessuno, tranne una sorella maritata per conto suo… Che andrei più a Fare li? Non voglio dare spettacolo della mia miseria a quanti mi invidiarono un giorno… Ma qui, sola con tre bambini, sconosciuta da tutti… che ffarò? Sono disperata… mi sento perduta… Sono stata a Roma a sollecitare qualche assegno… Non ho diritto a niente: undici anni soli d’insegnamento, undici mesate: poche migliaja di lire… Non me le avevano ancora liquidate! Ho strillato tanto al Ministero, che mi hanno preso per pazza… Cara signora, dice, docce Fredde, docce Fredde!… Ma sì! fforse impazzisco davvero… Ho qui, perpetuo, qui, un dolore, come un rodio, un tiramento, qui, al cervelletto, Noli… E sono come arrabbiata… sì, sì… sono rimasta come arrabbiata… come arsa dentro… con un sfuoco, con un Fuoco in tutto il corpo… Ah, come siete Fresco, voi Noli, come siete Fresco, voi!
E, in così dire, in mezzo all’umido viale deserto, sotto le pallide lampade elettriche, le quali, troppo distanti l’una dall’altra, diffondevano appena nella notte un rado chiarore opalino, gli si appese al braccio, gli cacciò sul petto la testa, chiusa nella cuffia di crespo vedovile, frugando, come per affondargliela dentro, e ruppe in smaniosi singhiozzi.
Il Noli, sbalordito, costernato, commosso, arretrò istintivamente per staccarsela d’addosso. Comprese che quella povera donna, nello stato di disperazione in cui si trovava, si sarebbe aggrappata forsennatamente al primo uomo di sua conoscenza, che le fosse venuto innanzi.
– Coraggio, coraggio, signora, – le disse. – Fresco? Eh sì, fresco. Ho già moglie, io, signora mia.
– Ah, – fece la donnetta, staccandosi subito. – Moglie? Avete preso moglie?
– Già da quattr’anni, signora. Ho anche un bambino.
– Qua?
– Qua vicino. A Città Sant’Angelo.
La vedovino gli lasciò anche il braccio.
– Ma non siete piemontese voi?
– Sì, di Torino proprio.
– E la vostra signora?
– Ah, no, la mia signora è di qua.
I due si fermarono sotto una delle lampade elettriche e si guardarono e si compresero.
Ella era dell’estremo lembo d’Italia, di Bagnara Calabra.
Si videro tutti e due, nella notte, sperduti in quel lungo, ampio viale deserto e malinconico, che andava al mare, tra i villini e le case dormenti di quella città così lontana dai loro primi e veri affetti e pur così vicina ai luoghi ove la sorte crudele aveva fermato la loro dimora. E sentirono l’uno per l’altra una profonda pietà, che, anziché ad unirsi, li persuadeva amaramente a tenersi discosti l’uno dall’altra, chiuso ciascuno nella propria miseria inconsolabile.
Andarono, muti, fino alla spiaggia sabbiosa, e si appressarono al mare.
La notte era placidissima; la frescura della brezza marina, deliziosa.
Il mare, sterminato, non si vedeva, ma si sentiva vivo e palpitante nella nera, infinita, tranquilla voragine della notte.
Solo, da un lato, in fondo, s’intravedeva tra le brume sedenti su l’orizzonte alcunché di sanguigno e di torba, tremolante su le acque Era forse l’ultimo quarto della luna, che declinava, avviluppata nella caligine.
Sulla spiaggia le ondate si allungavano e si spandevano senza spuma, come lingue silenziose, lasciando qua e là su la rena liscia, lucida, tutta imbevuta d’acqua, qualche conchiglia, che subito, al ritrarsi dell’ondata, s’affondava.
In alto, tutto quel silenzio fascinoso era trafitto da uno sfavillio acuto, incessante di innumerevoli stelle, così vive, che pareva volessero dire qualcosa alla terra, nel mistero profondo della notte.
I due seguitarono ad andar muti un lungo tratto su la rena umida, cedevole. L’orma dei loro passi durava un attimo: l’una vaniva, appena l’altra s’imprimeva. Si udiva solo il fruscio dei loro abiti.
Una lancia biancheggiante nell’ombra, tirata a secco e capovolta su la sabbia, li attrasse. Vi si posero a sedere, lei da un lato, lui dall’altro, e rimasero ancora un pezzo in silenzio a mirar le ondate che si allargavano placide, vitree su la bigia rena molliccia Poi la donna alzò i begli occhi neri al cielo, e scoprì a lui, al lume delle stelle, il pallore della fronte torturata, della gola serrata certo dall’angoscia.
– Noli, non cantate più?
– Io… cantare?
– Ma sì, voi cantavate, un tempo, nelle belle notti… Non vi ricordate, a Matera? Cantavate… L’ho ancora negli orecchi, il suono della vostra vocetta intonata… Cantavate in Falsetto… con tanta dolcezza… con tanta grazia appassionata… Non ricordate più?…
Egli si sentì sommuovere tutto il fondo dell’essere alla rievocazione improvvisa di quel ricordo ed ebbe nei capelli, per la schiena, i brividi d’un intenerimento ineffabile.
Sì, sì… era vero: egli cantava, allora… fino laggiù, a Matera, ancora aveva nell’anima i dolci canti appassionati della sua giovinezza e, nelle belle sere, passeggiando con qualche amico, sotto le stelle, quei canti gli rifiorivano su le labbra.
Era dunque vero ch’egli se l’era portata via con se, la vita, dalla casa paterna di Torino; ancora laggiù la aveva con sè, certo, se cantava… accanto a questa povera piccola amica, a cui forse aveva fatto un po’ di corte, in quei giorni lontani, oh così, per simpatia, senza malizia… per bisogno di sentirsi accanto il tepore d’un po’ d’affetto, la tenerezza blanda d’una donna amica.
– Vi ricordate, Noli?
Egli, con gli occhi nel vuoto della notte, bisbigliò:
– Sì… sì, signora, ricordo…
– Piangete?
– Ricordo…
Tacquero di nuovo. Guardando entrambi nella notte, sentivano ora che la loro infelicità quasi vaporava, non era più di essi soltanto, ma di tutto il mondo, di tutti gli esseri e di tutte le cose, di quel mare tenebroso e insonne, di quelle stelle sfavillanti nel cielo, di tutta la vita che non può sapere perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire.
La fresca, placida tenebra, trapunta da tante stelle, sul mare, avvolgeva il loro cordoglio, che si effondeva nella notte e palpitava con quelle stelle e s’abbatteva lento, lieve, monotono con quelle ondate su la spiaggia silenziosa. Le stelle, anch’esse, lanciando quei loro guizzi di luce negli abissi dello spazio, chiedevano perché; lo chiedeva il mare con quelle stracche ondate, e anche le piccole conchiglie lasciate qua e là su la rena.
Ma a poco a poco la tenebra cominciò a diradarsi, cominciò ad aprirsi sul mare un primo frigido pallore d’alba. Allora, quanto c’era di vaporoso, d’arcano, quasi di vellutato nel cordoglio di quei due rimasti appoggiati ai fianchi della lancia capovolta su la sabbia, si restrinse, si precisò con nuda durezza, come i lineamenti dei loro volti nella incerta squallida prima luce del giorno.
Egli si sentì tutto ripreso dalla miseria abituale della sua casa vicina, ove tra poco sarebbe arrivato: la rivide, come se già vi fosse, con tutti i suoi colori, in tutti i suoi particolari, con entro la moglie e il suo piccino, che gli avrebbero fatto festa all’arrivo. E anch’ella, la vedovina, non vide
più così nera e così disperata la sua sorte: aveva con sé parecchie migliaia di lire, cioè la vita assicurata per qualche tempo: avrebbe trovato modo di provvedere all’avvenire suo e dei tre piccini. Si racconciò con le mani i capelli su la fronte e disse, sorridendo, al Noli:
– Chi sa che ffaccia avrò, caro amico, non è vero?
E si mossero entrambi per ritornare alla stazione.
Nel più profondo recesso della loro anima il ricordo di quella notte s’era chiuso; forse, chi sa! per riaffacciarsi poi, qualche volta, nella lontana memoria, con tutto quel mare placido, nero, con tutte quelle stelle sfavillanti, come uno sprazzo d’arcana poesia e d’arcana amarezza.