Poesie da Il canzoniere:
– A MIA MOGLIE
– CITTA’ VECCHIA
– LA CAPRA
Un caso isolato nella poesia del primo Novecento. Umberto Saba (Trieste 1883 – Gorizia 1957) è stato un poeta anomalo nel clima culturale e letterario degli inizi del XX secolo. Infatti l’autore triestino, il cui nome di battesimo era Umberto Poli, si tenne a debita distanza dai circoli letterari e dalle riviste di poesia del tempo e rimase sempre fedele a una sua idea lirica lontana dalle complicazioni intellettuali. Saba non ha mai fatto ricorso ad effetti retorici e a raffinatezze per colpire il lettore, ma ha sempre preferito l’ordinario, il quotidiano, cercando ad ogni costo di essere sincero: infatti la sua poesia è volta all’autobiografismo, trae spunto dall’esperienza personale, da piccoli episodi e situazioni che ricostruiscono i momenti salienti della vita e del mondo interiore dell’autore. In tal senso Saba non era del tutto estraneo ad alcune delle tesi sostenute dalle poetiche di quegli anni (dare espressione immediata all’autenticità della vita e dell’esperienza, come testimoniavano i poeti “vociani”; il rifiuto della retorica del poeta vate, incarnato dalla figura di D’Annunzio, e dalla preferenza di una poesia sommessa e ironica, portata avanti principalmente da Guido Gozzano e dai crepuscolari), ma in ogni caso la sua lirica ha tratti immediatamente riconoscibili e per questa ragione si può parlare di Saba come di un “classico” della letteratura del Novecento.
La “poesia onesta”. Ciò che caratterizza e distingue Saba da ogni altro poeta del suo tempo è la straordinaria semplicità con la quale mescola i vocaboli della tradizione lirica, la canzonetta settecentesca, il verso cantabile con il linguaggio di tutti i giorni. Questa mescolanza non ha nessuno scopo ironico, come invece accade nei poeti crepuscolari: Saba, con una grazia quasi ingenua, nobilita tutto ciò che è considerato non poetico (si pensi alla poesia A mia moglie, dove la donna del poeta è paragonata a una “pollastra”, a una “giovenca” e a una “coniglia”) e nello stesso tempo abbassa il “grande stile” della tradizione a un livello quotidiano, facendoli combaciare perfettamente. In un articolo del 1911 Saba scrisse che «ai poeti resta da fare la poesia onesta», cioè una poesia che non si preoccupasse solo di piacere per i virtuosismi del verso, ma che rispondesse a una ragione etica, che desse espressione al mondo interiore del poeta.
L’autobiografia e la psicanalisi. L’interesse verso il proprio mondo interiore portò Saba alla scoperta della psicanalisi, che da un lato gli offriva l’opportunità di guarire dalle sue frequenti crisi depressive, dall’altro diventava una chiave interpretativa della sua stessa poesia. Il poeta era reduce da un’infanzia non particolarmente felice: non conobbe il padre, che abbandonò quasi subito il tetto coniugale, e passò alcuni anni con l’amatissima tata, lontano dalla madre. Il piccolo Umberto fu segnato per tutta la vita da questo trauma, a cui si aggiungeva il sentirsi straniero nella sua patria e nella sua lingua: infatti non va dimenticato che Trieste fino alla Prima guerra mondiale era un porto asburgico e che la città era culturalmente distante dal resto d’Italia; in più va aggiunto che Saba era di origini ebraiche, la qual cosa lo rendeva due volte straniero nella sua patria d’elezione, l’Italia (negli anni del Fascismo fu costretto ad abbandonare Trieste per sfuggire alle persecuzioni razziali). La poesia diventa allora un resoconto sulla malattia, una sorta di diario intimo, pienamente autobiografico, che indaga i traumi dell’infanzia e l’angoscia della vita: in un certo qual senso la poesia sostituisce la psicanalisi per meglio comprendere le ragioni profonde del disturbo psichico e per consentire al poeta di convivere con esso. Non a caso Il canzoniere, frutto del lavoro di una vita, è suddiviso in sezioni che evocano fin dai titoli le varie fasi dell’esistenza del poeta, mostrando da subito una forte connotazione autobiografica.
Saba “antimoderno” e la linea “antinovecentista”. La critica letteraria si è interrogata a lungo sul rapporto tra Saba e la lirica del suo tempo, cercando di «spiegare perché è storicamente moderno essendo quasi completamente agli antipodi degli altri moderni» (Giacomo Debenedetti). In parte si può rispondere sostenendo che l’attenzione per la psicanalisi colloca perfettamente Saba nel suo tempo e riflette una luce nuova su tutta la sua poesia, ponendola pienamente nella “crisi” del primo Novecento. Una risposta più articolata a tale domanda è offerta da Pasolini che analizzando la lirica del Novecento distinse la linea “novecentista” da quella “antinovecentista”. La prima faceva capo a Ungaretti, agli ermetici e alla “poesia pura”, una poesia di intensa sperimentazione, fatta di parole evocative, talvolta oscure, che dovevano condensare la verità in poche sillabe; la seconda era in parte riconducibile a Montale – il quale si era cimentato in una poesia che rendeva “versificabile” anche il brutto, l’impoetico, i relitti della quotidianità – ma soprattutto a tutto quel filone che sosteneva una lirica sommessa tra cui spiccavano Gozzano e appunto Saba, riconosciuto come maestro da molti poeti della seconda metà del Novecento, tra cui Penna, Sereni, Giudici. L’antinovecentismo di Saba si manifesta proprio nel rifiuto delle più ardite innovazioni poetiche e nel disinteresse per la “crisi della parola”, che invece rappresentava uno dei temi più frequentati dai poeti suoi contemporanei.