Parafrasi canto 26 (XXVI) del Paradiso di Dante

Parafrasi del Canto XXVI del Paradiso – Questo canto, assieme ai due precedenti costituisce una specie di “esame” di Dante sulle tre virtù teologali: dopo essere già stato interrogato da San Pietro sulla Fede, da San Giacomo sulla Speranza, qui San Giovanni lo interpella sulla carità. Beatrice restituisce al poeta la vista. Il canto si chiude con l’apparizione di Adamo, a cui Dante rivolge quattro domande, e con la risposta del primo padre.

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Mentre io ero incerto a causa della mia vista spenta,
dalla fulgida luce che mi aveva abbagliato
uscì una voce che catturò la mia attenzione,

dicendo: mentre attendi di riacquistare
il senso della vista che hai consumato fissandoti su di me,
è opportuno che compensi questa mancanza con l’esercizio della ragione.

Dunque comincia; e dimmi l’anima tua
a quale fine aspira, e fai conto che sia la tua vista
in te temporaneamente smarrita e non perduta per sempre;

perché Beatrice, che per questa divina
regione (paradiso) ti guida, ha nel suo sguardo
la virtù che ebbe la mano di Anania”.

Io dissi: “Presto o tardi, a suo piacimento, venga il rimedio
ai miei occhi che furono come le porte attraverso le quali essa
penetrò nel mio animo con quel fuoco di amor di cui io sempre ardo.

Il bene che rende beata questa corte, Dio,
è principio e fine di tutto il mio amore
sia per le cose importanti sia per le meno importanti”.

Quella stessa voce che mi aveva tolto
la paura dall’improvviso abbagliamento,
mi incoraggiò di nuovo a parlare;

e disse: “Il tuo pensiero dev’essere chiarito
filtrandolo ad un setaccio sempre più sottile: ti conviene dire
chi indirizzò l’arco del tuo amore a così alto segno (a Dio)”.

E io: “Tale amore conviene che si infonda nella mia mente
attraverso sia filosofici argomenti
sia l’autorità della sacra scrittura che dal cielo scende;

poiché il bene, quando è inteso come tale
accende amore di sé, e un amore tanto grande
quanta più bontà comprende in sé stesso.

Dunque la mente di ogni uomo,
che, amando, discerne la verità insita in questa prova,
necessariamente si deve rivolgere verso quell’essenza (Dio)

che di tanto supera tutte le altre in bontà,
al punto che ogni bene all’infuori di essa
è solo un riflesso di tutto ciò che deriva dalla sua luce.

Tale verità è chiarita alla mia mente
da quel filosofo che spiega come Dio sia il principio di amore
a cui tendono tutte le anime create immortali.

Lo dimostra la voce stessa di Dio, autore del mondo,
che dice a Mosè, parlando di sé stesso,
“Io ti mostrerò ogni bene”.

Me lo dimostri anche tu ancora, incominciando
il tuo libro che, più di ogni altro annuncio,
svela sulla Terra il mistero del Cielo”.

E io udii: “Per gli argomenti della ragione umana
e per l’autorità della Sacra Scrittura
il supremo dei tuoi amori si indirizza come a suo oggetto, a Dio.

Ma dimmi ancora se tu ti senti attratto
verso di lui, cosicché tu manifesti
con quanti denti tu sei morso da questo amore”.

Non mi rimase nascosta la sacra volontà
dell’aquila di Cristo, anzi mi accorsi subito
dove voleva condurre la mia professione di carità.

Perciò ricominciai: “Tutti quegli stimoli
che invitano il cuore a rivolgersi a Dio,
sono venuti in soccorso ad alimentare la mia carità:

perché l’essenza del mondo e di me stesso,
la morte che egli sostenne per la mia salvezza,
e ciò che ogni fedele spera come spero io,

Insieme alla già detta conoscenza della verità,
tutti questi motivi mi hanno sottratto al mare tempestoso degli amori fallaci
verso il sicuro approdo del vero amore.

Io amo così tanto le creature di cui
si adorna l’orto dell’eterno ortolano (Dio),
quanto esse (le creature) partecipano della sua bontà”.

non appena io tacqui, un dolcissimo canto
risuonò nel paradiso, e Beatrice
insieme alle altre anime diceva: “Santo, Santo, Santo!”

E come di fronte a una intensa luce improvvisa
l’uomo si sveglia perché lo spirito visivo che corre
dal cervello alla pupilla lungo il nervo,

e così svegliato non capisce ciò che vede,
è tanto privo di coscienza repentina
finché non recupera la facoltà percettiva;

così Beatrice allontanò ogni ombra dai miei occhi
con la luce raggiante dei suoi,
che risplendeva da più di mille miglia:

per cui da quel momento vidi meglio di prima;
e quasi stupito domandai
chi fosse quella quarta anima luminosa che vidi tra noi.

E Beatrice: “Dentro questa luce
contempla amorosamente il suo creatore, la prima anima,
che fu la prima ad essere creata da Dio”.

Come il ramo che piega la sua cima
al soffio del vento, e poi si raddrizza
per la propria inclinazione naturale a levarsi,

così feci io mentre che questa parlava,
per lo stupore, e poi ripresi coraggio
poiché ardevo dal desiderio di parlare.

E iniziai: “Oh uomo che fosti creato
solo e già adulto, oh padre antico
di fronte al quale ogni sposa è anche figlia e nuora,

ti supplico con tutta la devozione che possiedo
affinché mi parli: tu vedi in Dio cosa desidero da te,
e per ascoltare prima le tue parole non ti pongo la mia richiesta”.

Come un animale coperto con un panno si agita confusamente,
cosicché i suoi istinti necessariamente si svelano a chi guarda
perché l’involucro che lo fascia rivela i suoi movimenti;

così l’anima di Adamo
mi faceva trasparire dalla coperta di luce
quanto essa fosse lieta di soddisfarmi.

Così disse: “Sebbene tu non l’abbia espressa (la tua voglia),
distinguo bene ciò che desideri,
meglio di qualunque cosa che ti è più certa;

poiché io la vedo nello specchio della mente divina
che fa di sé riflesso di altre cose,
senza che nessuna possa riflettere lui (Dio) intensamente.

Tu vuoi sentire da quanto tempo Dio mi ha posto
nel giardino divino (Paradiso) dove costei (Beatrice)
ti ha permesso di salire attraverso i cieli,

e quanto fu amato per i miei occhi,
e quale fu la vera ragione (del peccato originale) della grande ira (di Dio),
e quale la lingua che usai e creai.

Ora, figlio mio, la ragione dell’esilio dall’Eden non fu
il fatto di aver mangiato il frutto proibito in sé,
ma l’aver voluto oltrepassare il limite che mi era stato assegnato.

Dal limbo da cui Beatrice chiamò Virgilio (per guidarti),
desiderai di salire a questo celeste concilio
(aspettando) quattromila trecento due anni;

e prima (di salirci), finchè vissi sulla terra,
vidi il Sole ripercorrere la sua strada
novecento trenta volte.

La lingua che io parlai si estinse
prima che il popolo babilonese, sotto la guida di Nembròt
si accingesse all’opera, mai finita, della torre di Babele;

poiché nessun prodotto della ragione umana
fu mai durevole per sempre a causa dell’instabilità del gusto
che si rinnova perennemente secondo gli influssi astrali.

E’ cosa naturale che l’uomo parli;
ma esprimersi in questo o quel modo non è effetto di natura
ma piuttosto una scelta libera degli uomini.

Prima che io scendessi all’Inferno,
il sommo bene (Dio) da cui deriva la giocosità che mi avvolge lucente,
era chiamato in Terra “I”;

in seguito venne chiamato “El”: e ciò è necessario,
poiché gli usi dei mortali sono con una foglia
su un ramo, cade e viene sostituita da un’altra.

Nel paradiso terrestre, più alto monte sulla superficie del mare,
rimasi io prima e dopo il peccato,
dalla prima ora del giorno alla seconda, che segue la sesta,

quando il Sole muta quadrante (sei ore in tutto)”.

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