Parafrasi canto 30 (XXX) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XXX dell’Inferno – Dante e Virgilio si trovano nella decima bolgia quella dei falsari di persone, che corrono rabbiosi mordendo gli altri, di monete, gonfiati dall’idropisia e straziati dalla sete, e di parole, orribilmente assetati.

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Al tempo in cui Giunone era adirata
contro la popolazione dei Tebani a causa di Semelè,
come mostrò a più riprese,

Atamante divenne tanto malato di mente,
al punto che vedendo la moglie con i due figlioletti,
reggendone uno per braccio,

gridò: “Tendiamo le reti, cosicchè io possa prendere
la leonessa e i leoncini al varco”;
e poi distese le mani come artigli,

e afferò un figlio che aveva come nome Learco, e lo fece
roteare e lo percosse contro un sasso; e la madre, per
sfuggire, si gettò in mare con l’altro figlio ma morì annegata.

E quando la fortuna ridimensionò
la superba potenza dei Troiani, che prima non temeva nulla,
tanto che insieme al regno fu spento anche il re Priamo,

Ecuba triste, sconsolata e fatta schiava,
dopo che ebbe vista morta la sua figlia Polissena, e del
corpo morto di suo figlio Polidoro che giaceva sulla riva

del mare si fu dolorosamente accorta,
urlò disperatamente come latra un cane;
ed il dolore fu così grande che la rese pazza.

Ma nè scatti d’ira di tebani e nemmeno di troiani
furono mai visti tanto crudeli,
né contro le bestie, né contro membra umane,

quanto erano crudeli le due ombre che vidi, smorte e nude,
che, correndo, mordevano i dannati, come fa il porco
quando si getta fuori dal porcile quando questo gli viene aperto.

Una di esse giunse da Capocchio, e sul nodo
del collo lo addentò, con tanto impeto che, tirando,
gli fece strisciare il ventre sul duro fondo della bolgia.

E Griffolino d’Arezzo, unico rimasto, tutto tremante,
mi disse: “Quello spirito furioso è Gianni Schicchi,
e va in girò così arrabbiato conciando in tal modo gli altri”.

“Oh” gli dissi, “io ti auguro che l’altro dei due non ti metta
i denti addosso, ma a te non costi fatica
dirmi chi è, prima che sia corso via di qua”.

Ed egli a me: “L’altra è l’anima dell’antica
e malvagia Mirra, che divenne
amante di suo padre, contro ogni possibile legge dell’amore.

Lei arrivò a commettere atti peccaminosi con lui,
camuffandosi in un’altra donna, come fece anche l’altro,
Gianni Schicchi, che se ne fugge da quella parte, che osò,

per riuscire ad ottenre la più bella cavalla della mandria,
fingere di essere Buoso Donati, dettando le norme al notaio
e rendendo così legale il testamento”.

E dopo che furono passati oltre i due dannati rabbiosi
sui quali avevo tenuto fissi miei occhi,
rivolsi il mio sguardo verso gli altri peccatori.

Ne vidi uno, che avrebbe avuto la forma di liuto
se l’inguine gli fosse stato separato
dove normalmente nell’uomo si divide in due.

La grave idropisia, che rende sproporzionate le membra a causa
del liquido vitale o della linfa che vengono male elaborate, così
che il viso non rispecchia il ventre (viso magro e ventre gonfio)

lo costringeva a tenere le labbra aperte
come fa il tubercolotico, che per la sete febbrile
ripiega un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto.

“O voi che vi trovate, senza alcuna pena,
ed io non so il perchè, in questo mondo triste”,
disse egli a noi, “guardate e riflettete

sulla miseria di maestro Adamo:
in vita io ebbi in abbondanza quello che volli,
e ora, ahime! desidero solo una gocciolina d’acqua.

I ruscelletti che dalle verdi colline
del Casentino scendono giù fino all’Arno,
facendo diventare i lori corsi freddi e molli,

mi stanno sempre davanti agli occhi, e non invano,
perchè la loro immagine m’inaridisce sempre più,
più dell’idropisia, che mi smagrisce sempre più il volto.

La severa giustizia divina che mi tormenta
trae la sua origine dal luogo dove io peccai
per rendere i miei sospiri sempre più frequenti e veloci.

Nel Casentino si trova Romena, là dove io falsificai la moneta
fiorentina con impressa l’immagine di San Giovanni Battista;
e per questo motivo io lasciai il mio corpo arso lassù in terra (morii bruciato vivo).

Ma se io potessi vedere qui, dannata insieme a me, la triste
anima di Guido II o d’Alessandro I o del loro fratello Aghinolfo,
non scambierei di certo la vista di loro con la possibilità dissetarmi a Fonte Branda.

Dentro questa bolgia c’è già una di queste anime, se quelle
ombre rabbiose che girano intorno dicono il vero; ma a cosa
mi serve saperlo, se ho le membra tanto legate da non poter vedere?

Se io fossi ancora tanto agile che poter almeno,
in cent’anni, muovermi anche solo di qualche centimetro,
mi sarei già messo in cammino lungo il sentiero,

cercandolo tra questa gente contraffatta,
anche se la bolgia ha un cicuito di undici miglia,
ed è larga non meno di mezzo miglio.

Io sono qui in mezzo a tali anime a causa loro:
loro m’indussero a coniare fiorini
mescolando tre carati di metallo falso”.

E io gli dissi: “Chi sono quei due poveracci
che fumano come fanno le mani bagnate in inverno,
e giacciono stretti qui alla tua destra?”

“Li ho trovati qui – e non si sono mai mossi -”
mi rispose, “quando precipitai in questo pendio ripido,
e non credo che si muoveranno in eterno.

Una è la bugiarda che accusò falsamente Giuseppe;
l’altro è il bugiardo Sinone, greco di Toria:
ed a causa dell’altissima febbre emettono tanto puzzo”.

E uno di loro, che s’indispettì
forse per essere stato nominato così spregevolmente,
con il pugno percosse maestro Adamo sulla gran pancia dura.

Quella risuonò come fosse stata un tamburo;
e il maestro Adamo gli percosse in risposta il volto
con il suo pugno, che non sembrò essere meno forte, duro,

dicendogli: “Anche se mi è stata tolta la possibilità
di potermi muovere a causa delle membra appesantite, ho ancora
il braccio libero ed agile per poterlo usare in questo modo”.

Quindi Sinone rispose: “Quando tu venivi portato
al rogo, non l’avevi così svelto:
ma così e anche di più lo avevi quando coniavi monete false”.

E l’idropico: “In questo tu dici il vero:
non tu non sei stato invece testimone altrettanto affidato
quando là a Troia ti fu chiesto di dire la verità”.

“Se io dissi il falso, tu hai falsificato la moneta”
disse Sinone; “ma io son qui per un solo peccato,
mentre tu hai peccato più di qualunque altro demonio!”.

“Ricordati, traditore falso, del cavallo”
rispose quello che aveva la pancia gonfia;
“e ti sia di vergogna che tutto il mondo lo sappia!”.

“E a te sia di tormento la sete che ti fa crepare”
disse il greco “la lingua, ed anche l’acqua marcia che ti fa
innalzare il ventre fino su agli occhi come una siepe!”.

Allora il coniatore: “Allo stesso modo si squarcia
la tua bocca per parlare male degli altri, come al solito;
perchè se io ho sete e l’umore che mi goncia,

tu sei accaldato dalla febbre ed hai la testa che ti duole;
ed a leccare l’acqua in cui si specchiò Narciso
non servirebbero molte parole per invitarti a farlo”.

Io ero tutto intento ad ascoltarli,
quando il mio maestro mi disse: “Continua a fissarli!
e mancherà poco che non litighi anch’io con te”.

Quando lo sentii rivolgersi a me in modo adirato,
mi volsi verso di lui con una tale vergogna,
che ancora riesco a ricordarla bene nella memoria.

Come colui che sta sognando di essere in disgrazia,
e che anche se sta già in realtà sognando, desidera sognare,
aspirando a quello che è già realtà, come se non lo fosse,

così feci io, non potendo parlare,
che desideravo scusarmi, ma già mi scusavo
vergognandomi, anche se non credevo di farlo.

“Un rossore minore riuscerebbe a far perdonare un errore
maggiore” disse il maestro, “di quello che è stato il tuo;
perciò abbandona ogni tristezza:

e dà per certo che io ti starò sempre al fianco,
se mai ti dovesse capitare per sventura
di trovarti insieme a gente simile in simili battibecchi;

perchè voler stare ad ascoltare ciò è un desiderio volgare, ignobile”.

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