Aveva mangiato troppo, i canederli che nuotavano nel brodo, lo stinco di maiale arrostito al forno alla perfezione e la torta di mele… stupenda, ne aveva ingoiato due fette e si era trattenuto solo perché non voleva esagerare. Era appena salito in una delle poche camere che quel ristorante metteva a disposizione per gli ospiti che desideravano prolungare la permanenza fino alla mattina seguente, o, per meglio dire, fino alla colazione della mattina dopo, quando miele profumato e burro ricavato da latte di montagna, quando il pane ancora caldo e la panna fresca avrebbero fatto da prelibato corollario alla semplice tazza di caffè: un conto svegliarsi di corsa per uscire e andare a lavoro, buttando giù in fretta e furia una brodaglia calda, un altro è svegliarsi con la consapevolezza che ci fosse tutto il tempo e tutta la calma per godere di certe golosità. Finalmente a letto, si mise a sfogliare due paginette del libro che aveva lasciato la sera prima sul comodino e si predispose a un meritato riposo. Curioso, aveva lasciato un segnalibro alla pagina 65, lo ricordava bene, perché corrispondeva all’età in cui era andato in pensione; da quel momento aveva iniziato a viaggiare e a concedersi il lusso di cibi raffinati tipici in ogni luogo d’Italia, e ora era segnata la 2.
Già, ma il segnalibro? La pagina non era più quella.
«Sarà caduto a chi ha rifatto la camera e avrà messo il segnalibro a caso», si disse e si dispose a iniziare a leggere da dove aveva lasciato, ma non appena tentava di voltare pagina, questa si ribellava alle sue dita, si arricciolava e l’uomo faticava come se un forte vento gli impedisse di sfogliare il libro a piacimento. Si guardò intorno, ma la finestra era chiusa, e così anche la porta, insomma, inspiegabile!
Un sussurro incerto lo sfiorò, come se qualcuno gli avesse parlato piano all’orecchio.
«Sei tornato, alla fin fine. La nostra camera è come l’hai lasciata».
Nessuno si era avvicinato di soppiatto all’uomo, il quale pensò di avere le traveggole, ma quel respiro insistente all’orecchio che gli suggeriva il numero della sua camera, e il venticello malizioso che riportava sempre la pagina del libro allo stesso punto non lo lasciavano tranquillo. Decise di alzarsi dalla poltrona; così facendo si accorse che il bicchiere di vino rosso che si era portato in camera, per accompagnare il piacere della lettura con quello del gusto, era vuoto, ma non ricordava di averlo bevuto.
«Che mi succede?», si chiese, sempre più perplesso, per non dire spaurito. Un tocco leggero sulla spalla lo fece voltare di colpo, questa volta avrebbe visto il burlone che lo infastidiva. Una figura evanescente, una donna, con un’espressione mesta, avvolta in un vestito rosso cupo, dello stesso colore del vino svanito nell’aria, gli apparve dinanzi.
«Sposo mio, alla fine sei qui, sei tornato. Ti ho atteso a lungo».
All’uomo si rizzarono i capelli in testa, balbettò qualche parola inconsulta, poi si precipitò alla porta della camera, la spalancò e uscì nel corridoio che se non una giovane donna, benchè eterea, ma una turba di fantasmi spaventosi lo inseguisse. Si precipitò alla reception dove Stefania stava ancora lavorando e ormai senza voce, a gesti indicò verso la camera. La ragazza si preoccupò che una qualche malattia improvvisa avesse colpito l’ospite, ma quando costui si riprese e cominciò a raccontare quello che gli era successo, scoppiò in una bella risata.
«Si tratta del fantasma di Elena, pare che sia stata abbandonata dal marito in quella stessa camera, da dove non è più uscita, aspettandolo, da dove poi è stata portata via e ricoverata in un ospedale psichiatrico. Dopo la sua morte, ogni tanto, quando la camera viene data a un signore, lei appare e crede che si tratti del fedifrago tornato per chiederle scusa. Non si preoccupi, non è pericolosa, basta che le dica il suo nome, quando capirà che lei non è Rodolfo se ne andrà».
L’uomo cadde a corpo morto in una poltrona, che, per fortuna, era lì presso, si prese la testa fra le mani e iniziò a singhiozzare.
«Che succede ora, si calmi», gli disse Stefania, nel tentativo di aiutarlo.
«Ma io – singhiozzò il poveretto – io mi chiamo appunto Rodolfo. Non se ne andrà mai».
Racconto di Giuliana Borghesani, concorso letterario 2013 de La Cascina