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La trama:
Il protagonista di questa vicenda, Vitangelo Moscarda, è una persona ordinaria e semplice, che ha ereditato da giovane la banca del padre usuraio e vive di rendita affidando in tutto e per tutto la gestione dell’impresa a due fidi collaboratori, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo. Un giorno, in seguito alla rivelazione da parte della moglie Dida di un suo difetto fisico (il naso leggermente storto) di cui lui non si era mai accorto, il protagonista inizia a prendere consapevolezza del fatto le persone intorno a lui hanno una percezione della sua persona completamente diversa da quella che lui ha di sé. L’improvvisa scoperta fa crollare di colpo tutte le sue certezze e Vitangelo Moscarda viene così travolto da una profonda crisi esistenziale: ha sempre creduto di essere “uno” quando in realtà è “centomila” dal momento che ogni persona gli attribuisce una forma diversa. Rendendosi conto di prendere vita solo attraverso gli occhi degli altri, scopre quindi di non essere di per sé proprio “nessuno”.
Questa nuova consapevolezza accende in lui il forte desiderio di distruggere tutte le forme che gli vengono attribuite dagli altri ma nelle quali non si riconosce, con l’obiettivo di riuscire ad essere “uno per tutti”. Il protagonista inizia così ad adottare comportamenti, ragionati e non, che inizialmente vengono visti semplicemente come insoliti da parte di amici e familiari, ma poi, in poco tempo, come chiari indizi di follia: fa sfrattare uno scultore finito in miseria, Marco di Dio, da un appartamento decadente di sua proprietà che era stata dato in uso gratuitamente dal padre, per poi fare annunciare dal notaio, nel momento in cui la folla presente inizia ad inferocirsi contro di lui, che lo ha fatto per dare in dono allo scultore stesso una sua altra casa; decide di ritirare tutti i soldi ereditati dal padre ed investiti nell’attività della banca, mettendola quindi in liquidazione; si lascia andare a scatti d’ira con la moglie (ed anche con la cagnolina Bibì) arrivando anche a scuoterla in modo violento per rivendicare che lui non è quella marionetta che lei si ostina a chiamare Gengè. Tali comportamenti sono quindi volti a cancellare l’immagine dell’usuraio che gli viene attribuita dalla gente di paese e l’immagine della persona sciocchina che gli viene attribuita dalla moglie (che viene appunto associata alla figura di Gengè, il nomignolo con cui lei lo chiama) e dagli amici, e che gli veniva anche attribuita dal suo stesso padre (il matrimonio con Dida fu di fatto combinato per cercare di ottenere almeno un erede da Vitangelo, visto che gli studi non portavano proprio a nessun risultato e non poteva essere pertanto avviato alla professione).
Come risultato di tutte queste azioni, la moglie Dida lo lascia ed inizia a congiurare di nascosto insieme al proprio padre ed ai due collaboratori Quantorzo e Firbo per farlo internare ed evitare così che possa ritirare i soldi ereditati dal padre mettendo la banca in liquidazione. Per fortuna arriva in suo soccorso Anna Rosa, una amica di Dida, che lo avverte del pericolo ed organizza un incontro con il vescovo monsignor Partanna, unica persona che a suo modo di vedere può riuscire a salvarlo. A causa di un incidente (la donna viene ferita ad un piede da un proiettile partito accidentalmente dalla pistola, ricordo del padre, che teneva in borsa) i due iniziano a frequentarsi dando il via ai pettegolezzi su una loro presunta relazione. Non bastasse questo a fare il gioco dei suoi nemici, un giorno Anna Rosa, con un gesto improvviso e inspiegabile, gli spara anche, ferendolo gravemente: la donna era rimasta talmente affascinata, ed anche scossa psicologicamente, da tutte le sue considerazioni sull’inconsistenza della persona e sulle forme che ci vengono imposte dagli altri, che per evitare ogni possibile conseguenza aveva deciso di ucciderlo. La storia alimenta le voci sulla presunta relazione colpevole tra i due. Anche i sospetti sulla sua pazzia hanno ora nuove prove a loro favore: Dida era già convinta che l’uomo avesse un interesse per l’amica e la vicenda viene quindi interpretata inizialmente come un atto di difesa di Anna Rosa contro un tentativo del marito.
L’unica via di uscita suggerita da Don Antonio Sclepis, il canonico al quale monsignor Partanna ha affidato il caso del protagonista, è a questo punto un esemplare atto di pentimento: Vitangelo Moscarda dona tutti gli averi per fondare un ospizio per mendicanti e poveri, e va a viverci anche lui stesso al pari di tutti gli altri ospiti, “dormendo senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato a uno della mia età e del mio sesso“.
Il protagonista può così finalmente vivere una vera vita, libera da ogni obbligo o limitazione. Una vita vissuta attimo per attimo, abbandonandosi al perenne fluire dell’esistenza e rinascendo continuamente in un modo ogni volta diverso, così come fa la natura. Significativo a tal proposito il rifiuto di aver un nome, che è il primo elemento che contraddistingue un individuo nella società civile. Per Vitangelo Moscarda il nome rappresenta la morte: “questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.“
Commento e analisi:
Il primato della riflessione sulla narrazione. Uno, nessuno e centomila è a tutti gli effetti un romanzo “filosofico”, in cui la riflessione e lo stile argomentativo prevalgono nettamente sull’esposizione dei fatti. Vitangelo Moscarda spesso riflette ad alta voce e il procedere narrativo scandisce il fluire dei suoi pensieri. Il protagonista è quindi un soggetto monologante, che dialoga spesso con sé stesso, e la sua mole argomentativa occupa gran parte del romanzo, tanto che i primi tre capitoli sono un intricato labirinto di ragionamenti dove non c’è spazio per l’azione e per la narrazione.
La riflessione sull’identità. Uno, nessuno e centomila è un romanzo a tesi il cui impianto narrativo è quello dell’indagine filosofica. Il protagonista Vitangelo Moscarda conduce una vera e propria inchiesta intorno all’idea di identità, cercando di dimostrare come l’idea che di noi si fanno gli altri è sempre diversa e non aderente a quella che noi abbiamo di noi stessi. Vitangelo cerca di liberarsi della diffamante e del tutto ingiustificata reputazione di strozzino che la gente del paese gli attribuisce, e lo fa tramite azioni clamorose che anziché affrancarlo da quella cattiva fama, finiscono per farlo apparire “pazzo” agli occhi dei compaesani.
I pregiudizi e l’estraneità. Non c’è dunque via di uscita dai pregiudizi della gente, da quella gabbia che ci cuce addosso la società. L’identità è qualcosa di totalmente precario, che cambia a seconda delle persone con cui entriamo in contatto: non è possibile definirla oggettivamente e una volta per tutte, perché sfugge, è relativa e soggettiva. Il risultato è che ognuno è costretto a essere continuamente frainteso perché le parole, i gesti, i rapporti sono viziati dalle mille interpretazioni che gli altri possono darne, generando equivoci e malintesi. L’uomo di fatto vive condannato all’incomunicabilità e all’estraneità, incapace di far venire fuori quello che veramente è.
La pazzia. L’epifania che vive il personaggio, cioè quell’evento che gli provoca un’improvvisa illuminazione, una presa di coscienza, lo conduce come sempre nelle opere di Pirandello a cambiare radicalmente il modo di rapportarsi agli altri, perciò viene giudicato folle. Nel caso di Vitangelo, c’è persino un grado ulteriore, perché il personaggio non si sottrae al giudizio della gente, ma rincara la dose della sua “follia” con un lucidità e una logica che lo rende una sorta di filosofo della pazzia: in altre parole Vitangelo agisce consapevolmente da pazzo in modo da suscitare scalpore. La pazzia, quindi altro non è che una messa in scena, una conquista di un livello superiore di saggezza di fronte ai pregiudizi e alle convenzioni che attanagliano il libero pensiero della gente. Ribaltando i luoghi comuni, il pazzo è quindi una persona che ha raggiunto una saggezza agli altri sconosciuta.
«Rinascere attimo per attimo». Vitangelo vive fino in fondo la propria estraneità al mondo, finendo per fare della propria alienazione una liberazione dalla forma che imbriglia la vita. In sostanza Vitangelo rifiuta categoricamente ogni ruolo, ogni cliché, stereotipo che gli altri gli attribuiscono e, a rischio di perdere definitivamente la propria identità (quindi di diventare “nessuno”), preferisce fare a meno dei nomi, della memoria, della propria coscienza (che è lo strumento con il quale interpretiamo il mondo e quindi lo assoggettiamo in una forma) per garantire al flusso della vita di continuare a scorrere. Il protagonista, così come la vita, «non conclude», cioè non si fissa in una forma e in un’identità, perché la vita è flusso e lui stesso si considera parte di questo flusso ininterrotto. Vitangelo alla fine del romanzo spiega come questo fluire sia un vero abbandonarsi alla vita, un «rinascere attimo per attimo», una fusione totale con la natura e il mondo circostante: «muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori». Vitangelo dall’“uno” che era all’inizio del romanzo si scopre quindi “nessuno” e infine “centomila”, perché è finalmente parte di tutte le cose, rinunciando alla sua originaria e fittizia identità.