Cento volte gli avrò detto di non introdurmi gente in casa senza preavviso. Una signora, bella scusa:
– T’ha detto Wheil?
– Vàil, sissignore, così.
– La signora Wheil è morta jeri a Firenze.
– Dice che ha da ricordarle una cosa.
(Ora non so più se io abbia sognato o se sia davvero avvenuto questo scambio di parole tra me e il mio cameriere. Gente in casa senza preavviso me n’ha introdotta tanta; ma che ora m’abbia fatto entrare anche una morta non mi par credibile. Tanto più che in sogno io poi l’ho vista, la signora Wheil, ancora così giovane e bella. Dopo aver letto nel giornale, appena svegliato, la notizia della sua morte a Firenze, ricordo infatti d’aver ripreso a dormire, e l’ho vista in sogno tutta confusa e sorridente per la disperazione di non saper più come fare a ripararsi, avvolta com’era in una nuvola bianca di primavera che s’andava a mano a mano diradando fino a lasciar trasparire la rosea nudità di tutto il corpo di lei, e proprio là dove più il pudore voleva ch’esso rimanesse nascosto; tirava con la mano; ma come si fa a tirare un vano lembo di nuvola?)
Il mio studio è tra i giardini. Cinque grandi finestre, tre da una parte e due dall’altra; quelle, più larghe, ad arco; queste, a usciale, sul lago di sole d’un magnifico terrazzo a mezzogiorno; e a tutt’e cinque, un palpito continuo di tende azzurre di seta. Ma l’aria dentro è verde per il riflesso degli alberi che vi sorgono davanti.
Con la spalliera volta contro la finestra che sta nel mezzo è un gran divano di stoffa anch’essa verde ma chiara, marina; e tra tanto verde e tanto azzurro e tanta aria e tanta luce, abbandonarvisi, stavo per dire immergervisi, è veramente una delizia.
Ho ancora in mano, entrando, il giornale che reca la notizia della morte della signora Wheil, jeri, a Firenze. Non posso avere il minimo dubbio d’averla letta: è qua stampata; ma è anche qua seduta sul divano ad aspettarmi la bella signora Anna Wheil, proprio lei. Può darsi che non sia vera, questo sì. Non me ne stupirei affatto, avvezzo come sono da tempo a simili apparizioni. O se no, c’è poco da scegliere, sta tra due, non sarà vera la notizia della sua morte stampata in questo giornale.
È qua vestita come tre anni fa d’un bianco abito estivo d’organdis, semplice e quasi infantile, sebbene ampiamente aperto sul petto. (Ecco la nuvola del sogno, ho capito). In capo, un gran cappello di paglia annodato da larghi nastri di seta nera. E tiene gli occhi un po’ socchiusi a difesa dalla luce abbagliante dei due finestroni dirimpetto; ma poi, è strano, espone invece a questa luce, reclinando il capo indietro con intenzione, la meravigliosa dolcezza della gola, come le sorge dal caldo trasognato candore del petto e sù dall’attaccatura del collo fino al purissimo arco del mento.
Quest’atteggiamento senza dubbio voluto m’apre tutt’a un tratto la mente: ciò che la bella signora Anna Wheil ha da ricordarmi è tutto lì, nella dolcezza di quella gola, nel candore di quel petto; e tutto in un attimo solo, ma quando un attimo si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte, come la vita, in una sospensione d’ebbrezza divina, in cui dal mistero balzano d’improvviso illuminate e precise le cose essenziali, una volta per sempre.
La conosco appena (morta, dovrei dire: “la conoscevo appena”, ma lei è qua ora come nell’assoluto d’un eterno presente, e posso dir dunque: la conosco appena), l’ho veduta una volta sola in una riunione festiva nel giardino d’una villa di comuni amici, a cui lei è venuta con quest’abito bianco d’organdis.
In quel giardino, quella mattina, le donne più giovani e più belle avevano quell’ardore sfavillante che nasce in ogni donna dalla gioja di sentirsi desiderata. S’eran lasciate prendere nel ballo e, sorridendo, ad accendere di più quel desiderio, avevan guardato sulle labbra così d’accosto l’uomo da sfidarlo irresistibilmente al bacio. Ma di primavera, momenti di rapimento, col tepore del primo sole che inebria, quando nell’aria molle è pure un vago fermento di sottili profumi e lo splendore del verde nuovo, che dilaga nei prati, brilla con vivacità così eccitante in tutti gli alberi intorno; strani fili di suono luminosi avviluppano; improvvisi scoppi di luce stordiscono; lampi di fughe, felici invasioni di vertigini; e la dolcezza della vita non par più vera, tanto è fatta di tutto e di niente; né vero più, né da tenerne più conto, ricordando poi nell’ombra, quando quel sole è spento, tutto ciò che s’è fatto e s’è detto. Sì, m’ha baciata. Sì, gliel’ho promesso. Ma un bacio appena sui capelli, ballando. Una promessa così per ridere. Dirò che non l’ho avvertito. Gli domanderò se non è matto a pretendere ch’io ora mantenga sul serio.
Si poteva esser certi che nulla di tutto questo era accaduto alla bella signora Anna Wheil, la cui piacenza sembrava a tutti così aliena e placida che nessuna bramosia carnale avrebbe osato sorgere davanti a lei. Io però avrei giurato che per quel rispetto che tutti le portavano lei avesse negli occhi un brillìo di riso ambiguo e pungente, non perché sentisse in segreto di non meritarselo, ma anzi al contrario perché nessuno mostrava di desiderarla come donna a causa di quel rispetto che pur le si doveva portare. Era forse invidia o gelosia, o forse sdegno o malinconica ironia; poteva anche essere tutte queste cose messe insieme.
Me ne potei accorgere in un momento, dopo averla seguita a lungo con gli occhi nei balli e nei giuochi a cui anche lei aveva preso parte; in ultimo anche nelle corse pazze che, forse per offrirsi uno sfogo, aveva fatte sui prati coi bambini. La padrona di casa, con cui mi trovavo, mi volle presentare a lei mentre era ancor china a rassettare le testoline scapigliate e le vesti in disordine a quei bambini. Nel rizzarsi d’improvviso per rispondere alla presentazione, la signora Anna Wheil non pensò di rassettarsi anche lei sul petto l’ampia scollatura di quel suo abito d’organdis; sicché io non potei fare a meno d’intravedere del suo seno forse più di quanto onestamente avrei dovuto. Fu solo un attimo. Subito portò la mano per ripararselo. Ma dal modo con cui, in quell’atto che volle parer furtivo, mi guardò, compresi che della mia involontaria e quasi inevitabile indiscrezione non s’era per nulla dispiaciuta. Quel brio di luce che aveva negli occhi sfavillò anzi diversamente da prima, sfavillò d’un estro quasi folle di riconoscenza, perché nei miei occhi rideva senz’alcun rispetto una gratitudine così pura di quel che avevo intravisto che ogni senso di concupiscenza restava escluso e solo si appalesava lampante il pregio supremo che io attribuivo alla gioja che l’amore d’una donna come lei, bella tutta come lei, coi tesori d’una divina nudità con così pudica fretta ricoperta, poteva dare a un uomo che avesse saputo meritarselo.
Questo le dissero chiaramente i miei occhi, splendenti ancora di quel baleno d’ammirazione; e questo fece subito che io diventassi per lei il solo Uomo, veramente uomo, tra tutti quelli che erano in quel giardino; nello stesso tempo che lei m’appariva tra tutte le altre la sola Donna, veramente donna. E non ci potemmo più separare per tutto il tempo che durò quella riunione. Ma oltre questa tacita intesa, durata un attimo, per sempre, non ci fu altro tra noi. Nessuno scambio di parole, fuori delle comuni e usuali, sulla bellezza di quel giardino, sulla giocondità di quella festa e la graziosa ospitalità dei nostri comuni amici. Ma, pur parlando così di cose aliene o casuali, le rimase negli occhi, felice, quel brillìo di riso che pareva rampollasse come un’acqua viva dal profondo segreto di quella nostra intesa e se ne beasse senza badare ai sassi e alle erbe tra cui ora scorreva. E un sasso fu anche il marito in cui c’imbattemmo poco dopo allo svoltare d’un viale.
Me lo presentò. Alzai un istante gli occhi a guardarla negli occhi. Un battito appena di ciglia velò quel brio di luce, e solo con esso la bella signora mi confidò che lui, quel bravo uomo del marito, non s’era mai neppur sognato di comprendere ciò che avevo compreso io in un attimo solo; e che questo non era da ridere, no; era anzi la sua mortale afflizione, perché una donna come lei certo non sarebbe stata mai d’altro uomo. Ma non importava. Bastava che uno almeno lo avesse compreso.
No, no, io non dovevo più, neppur senza volerlo, seguitando ora ad andare e a parlare noi due soli, non dovevo più posarle gli occhi sul seno e obbligar la sua mano ad accertarsi di furto ch’io non potessi più essere indiscreto; sarebbe stato ormai peccaminoso, per me insistere, e per lei tornare a compiacersene. C’eravamo già intesi. Doveva bastare. Non si trattava più di noi due; non era più da cercare né di sapere e neppur d’intravedere com’era lei, ch’era tutta bella, sì, come lei sola si conosceva; ci sarebbe stato allora da considerare tant’altre cose che riguardavano me: questa sopra tutto: che avrei dovuto avere per lei, a dir poco, vent’anni di meno: una gran malinconia di inutili rimpianti; no, no; una cosa bella, da riempirci della più pura gioja tra tanto splendore di sole e tanto riso di primavera, s’era rivelata a noi: questa cosa essenziale che è sulla terra, con tutto il nudo candore delle sue carni, in mezzo al verde d’un paradiso terrestre, il corpo della donna, concesso da Dio all’uomo come premio supremo di tutte le sue pene, di tutte le sue ansie, di tutte le sue fatiche.
– Se dovessimo pensare a te e a me…
Mi voltai. Come! Mi dava del tu? Ma la bella signora Anna Wheil era sparita.
Me la ritrovo ora qua accanto, in quest’aria verde, in questa luce del mio studio, vestita come tre anni fa del suo abito bianco d’organdis.
– Il mio seno, se sapessi! Ne sono morta. Me lo hanno reciso. Un male atroce ne fece scempio due volte. La prima, un anno appena dopo che tu, di qua, ricordi? me lo intravedesti. Ora posso allargare con tutt’e due le mani la scollatura e mostrartelo tutto, com’era, guardalo! guardalo! ora che non sono più.
Guardo; ma sul divano è solo il bianco del giornale aperto.