I
In tutto, due lagrimucce, tre ore coi gomiti sul tavolino, la testa tra le mani; sissignori: a forza di strizzarmi il cuore, eccole qua nel fazzoletto: proprio due, spremute agli angoli degli occhi. Da buoni amici, caro Momo, facciamo a metà. Una per te morto, una per me vivo. Ma sarebbe meglio, credi, che me le prendessi tutt’e due per me.
Come un vecchio muro cadente sono rimasto, Momino, a cui una barbara mano abbia tolto l’unico puntello. (Bella, eh? la barbara mano.) Ma non so piangere, lo sai. Mi ci provo, e riesco solo a farmi più brutto, e faccio ridere.
Sai che bell’idea piuttosto m’è venuta? di mettermi ogni sera a parlare da solo con te, qua, a dispetto della morte. Darti notizia di tutto quanto avviene ancora in questo porco mondaccio che hai lasciato e di ciò che si dice e di ciò che mi passa per il capo. E così mi parrà di continuarti la vita, riallacciandoti a essa con le stesse fila che la morte ha spezzate.
Non trovo altro rimedio alla mia solitudine.
Ridotto monaco di clausura nel convento della tua amicizia, nessuna parte di me è rimasta aperta a una relazione, sia pur lontana, con altri esseri viventi. E ora… mi vedi? ora che non ho più nulla da fare per te come in questi tre ultimi giorni dopo la tua morte, eccomi qua solo, in questa casa che non mi par mia, perché la vera casa mia era la tua.
Sentirai, sentirai, se mi ci metto per davvero, che bellissimi paragoni ti farò! Intanto, oltre a quello del muro cadente e della barbara mano, pigliati quest’altro del monaco di clausura.
Ho comperato un lume, lo vedi? Bello, di porcellana, col globo smerigliato. Prima non ne sentivo bisogno, perché le sere le passavo da te, e per venirmene a letto qua mi bastava un mozzicone di candela, che spesso mi davi tu.
Ora tanto è il silenzio, Momino, che lo sento ronzare. Un ronzio, sai? che pare piuttosto degli orecchi, quando ti s’otturano. Eh, tu l’hai otturati bene adesso, Momino mio! E m’immagino difatti che questo ronzio venga da lontano lontano. Da dove sei tu. Ed ecco, lo ascolto con piacere; mi ci metto dietro col pensiero, e vado e vado, finché – guarda, guarda, Momino, è venuta! – una terza lagrimuccia, di sperduta malinconia. Ma sarà per me, se permetti: mi sento davvero così solo!
Su, avanti, avanti. Vorrei proprio fartela vedere ancora, vedere e sentire, la vita, anche col tempo che fa, anche coi minimi mutamenti che vi succedono. Che se questo mondaccio sa e può fare a meno di tutti quelli che se ne vanno, di te non so né posso fare a meno io; e perciò, a dispetto della morte, bisogna che il mondo per mio mezzo continui a vivere per te, e tu per lui; o se no, me ne vado anch’io, e buona notte; me ne vado perché mi parrà proprio di non aver più ragione di restarci.
Tanto, è stata sempre così per me la vita: a lampi e a cantonate. Non sono riuscito a vederci mai niente. Ogni tanto, un lampo; ma per veder che cosa? una cantonata. Vale a dire, Momino, la coscienza che ti si para davanti di soprassalto: la coscienza d’una bestialità che abbiamo detto o fatto, tra le tante di cui al bujo non ci siamo accorti.
Basta, diventerò l’uomo più curioso della terra: spierò, braccherò, andrò in giro tutto il giorno per raccoglier notizie e impressioni, che poi la sera ti comunicherò, qua, per filo e per segno. Tanta vita, lo so, come sfugge a me, sfuggirà anche a te: la vita, per esempio, degli altri paesi; ma (cosa che non ho mai fatta) leggerò anche i giornali per farti piacere; e ti saprò dire se quella cara nostra sorella Francia, se quella prepotente Germaniaccia…
Ah Dio mio, Momo, forse le notizie politiche non t’interessano più? Non è possibile: erano ormai quasi tutta la tua vita e dobbiamo seguitare a fare come ogni sera, quando, dopo cena, il portinajo ti portava su il giornale e tu, leggendolo, a qualche notizia, battevi forte il pugno sulla tavola e io restavo perplesso tra i bicchieri che saltavano e i tuoi occhiacci che mi fissavano di sui cerchi delle lenti insellate sempre un po’ a sghimbescio sul tuo naso grosso. Te la pigliavi con me; mi apostrofavi, come se io poveretto, che non mi sono mai occupato di politica, rappresentassi davanti a te tutto il popolo italiano.
– Vigliacchi! Vigliacchi!
E quella sera che, terribilmente indignato, volevi dal terrazzino buttar giù nel fiume le tue medaglie garibaldine? Faceva un tempaccio! Pioveva a dirotto. E nel vederti così acceso manifestai l’opinione, ricordi? che non mettesse conto per questi porci d’Italia che tu rischiassi di prendere un malanno, uscendo sul terrazzino, sotto la pioggia. Come mi guardasti! Ma io t’ammiravo, sai? T’ammiravo tanto tanto, perché mi sembravi un ragazzo, in quei momenti, e spesso non sapevo trattenermi dal dirtelo e tu t’arrabbiavi e perfino m’ingiuriavi, quando alle tue ire focose opponevo questa mia bella faccia di luna piena, sorridente e stizzosa. Ti facevo uscir dai gangheri talvolta e dirne d’ogni colore. A qualcuna più grossa, tranquillissimo, ti domandavo:
– E come la ragioni?
E tu, rosso come un gambero, con gli occhi schizzanti dalle orbite:
– La ragiono, che sei un somaro!
Quanto mi ci divertivo! E mi suona ancora negli orecchi la tua voce, quando, con gli occhi chiusi, mi dicevi, quasi recitando a memoria:
– Per le anime lente e pigre come la tua, per le anime che non sanno cavar nulla da sé, tutto per forza è muto e senza valore.
E questo, perché non mi sapevo cavar dall’anima tutta quella candida santa ingenuità che tu cavavi dalla tua per vestirne uomini e cose. E quante volte non ti vidi parar così della bianca stola della tua sincerità qualche mala bestia, della quale ti bisognava un morso o un calcio per riconoscere la vera natura.
Ma tu volevi veder per forza tutto buono e tutto bello il mondo; e spesso ci riuscivi, perché è proprio in noi il modo e il senso delle cose; e segue appunto da ciò la diversità dei gusti e delle opinioni; e segue pure che, s’io voglio farti vedere ancora il mondo, bisogna che mi provi a guardarlo con gli occhi tuoi. E come farò?
Per cominciare, m’immagino che debbano interessarti maggiormente le cose che ti stavano più vicine; quelle, per esempio, di casa tua: tua moglie… Ah Momaccio, Momaccio, che tradimento! lasciamelo dire. Tante cose ti perdonai in vita: questa, no; né te la perdonerò mai. Tua moglie.
Se ai morti, nell’ozio della tomba, venisse in mente di porre un catalogo dei torti e delle colpe che ora si pentono avere nel decorso della loro vita commessi, catalogo che un bel giorno sarebbe edificante apparisse nella parte posteriore delle tombe, come il rovescio delle menzogne spesso incise nella lapide; tu nel tuo dovresti mettere soltanto:
SPOSAI. A. LVI. ANNI.
UNA. DONNA. DI XXX.
Basterebbe.
Senti. Mi par chiaro come la luce del sole che tu sei morto così precipitosamente per causa sua.
Non ti ripeterò qui, adesso, le ragioni che ti dissi cinque anni fa, nel giorno più brutto della mia vita, e delle quali facesti a tue spese la più trista delle esperienze. E poi, io dico, perché? che ti mancava? Stavamo così bene tutti e due insieme, in santa pace. Nossignori. La moglie. E sostenere che non era vero che la casa come ce l’eravamo fatta a poco a poco con quei miei vecchi mobili e con gli altri comperati di combinazione, ti potesse bastare; e quella bella polvere di vecchiaja che s’era ormai posata e distesa per noi su tutte le cose della vita, perché noi con un dito ci divertissimo a scriverci sopra: vanità; e le care quiete abitudini che s’erano già da un pezzo stabilite tra noi, con la compagnia delle nostre bestioline, le due coppie di canarini, a cui badavo io, Ragnetta a cui badavi tu (e spesso, quand’era in caldo, ricordi? La lisciavi, e ti sgraffiava) e le due stupidissime tartarughe, marito e moglie, Tarà e Tarù, che ci davano motivo a tante sapientissime considerazioni, là nel terrazzino pieno di fiori. Sostenere, santo Dio, che sempre – come Tarù – ne avevi sentito il bisogno, tu, d’una moglie (all’età tua, vergognosaccio!), e che io non ti potevo compatire, perché le donne, io…
Traditore, traditore e fanatico!
Non facevi delle donne anche tu la stessissima mia stima prima che venisse su a cangiarti in un momento da così a così la bella mademoiselle delle due stanze d’abbasso, con la scusa di vedere quei fiori del terrazzino, che su a te attecchivano e giù a mademoiselle, nei vasi sul davanzale della finestra, non volevano attecchire?
Maledetto terrazzino!
– Uh che bellezza! uh che meraviglia! E chi li coltiva così bene tutti questi fiori?
E tu, subito:
– Io!
Come se tutti i semi, a uno a uno, per trovarteli, le gambe non me le fossi rotte io per intere giornate, pezzo d’ingrato! Ma il bisogno di farti subito bello davanti a quella mademoiselle esclamativa…
A vederti tutt’a un tratto quel lustro di vecchio ubriaco negli occhi piccini piccini, e liquefare in certi sorrisi da scemo, ti avrei bastonato, ti avrei bastonato, parola d’onore. E quando lei disse che giù con la mamma malata non faceva altro che parlare di noi due, della dolcezza della nostra vita in comune:
– Due poveri vecchi, – m’affrettai a dirle (ti ricordi?) guardandola con certi occhi da farla sprofondare tre palmi sottoterra dalla vergogna.
Tu lo notasti, e subito, imbecille (lasciamelo dire):
– No, sa? vecchio lui solo, signorina! e brontolone, e seccatore. Non creda mica alla dolcezza della nostra vita! Sapesse che arrabbiature mi fa prendere!
Passati ora una mano sulla coscienza: mi meritavo questo da te?
Lasciamo andare. Ti castigai. Questa casa che tengo in affitto da cinque anni, rappresentò il castigo per te; non ostante che poco dopo il tuo matrimonio non avessi saputo tener duro e avessi ripreso a vivere quasi tutto il giorno con te.
Ma il letto a casa tua, no, mai più!
E ogni notte, sai, prima di lasciarti, pregavo tutti i venti della terra che andassero a prendere e rovesciassero su Roma un uragano, perché tu provassi rimorso nel vedermi andar via solo, povero vecchio, a dormire altrove, mentre prima il mio lettuccio era accanto al tuo e tenevamo calda la cameretta nostra. Avrei voluto, guarda, in una di queste notti di pioggia e di vento, ammalarmi, per accrescerti il rimorso; anche morire… – sì, sono arrivato ad assaporare il tossico di queste voluttà. Ma io, ahimè! ho la pelle dura, io; e sei morto tu, invece, tu e per causa di lei – lasciamelo dire!
Ah Momino, Momino: corrotta veramente la Francia! Si diventa per forza o così enfatici o così sdolcinati a parlar francese, specialmente delle donne e con le donne! La signorina d’abbasso, sapendo che tu insegnavi il francese, voleva parlare il francese con te:
– Oh que vous êetes gentil, monsieur Momino, de m’apprendre à prononcer si poliment le français!
Vedi? E ora torno a maledire il momento che a tua insaputa mi posi con impegno a fartelo ottenere quel posticino alle tecniche. Stando con me, non ti sarebbe mancato mai nulla; invece, professor di francese, enfasi, enfasi, credesti di poterti permettere di prender moglie all’età tua, e ti rovinasti.
Non ci si pensi più. Tu sai che sentimenti nutra io per tua moglie: tuttavia, non dubitare, ti darò frequenti notizie anche di lei.
Ma voglio riallacciare le fila proprio dal momento che il mondo per te si fece vano; dal momento che, sentendoti colpire improvvisamente dalla morte, a tavola, mentre si cenava, alla mia esclamazione: «Non è niente! non è niente!» rispondesti:
– L’ora di dire addio.
Furono le tue ultime parole. Il giorno appresso, alle nove del mattino, dopo tredici ore di agonia: morto.
Mi parrà sempre d’udire nel silenzio della notte il tremendo rantolo della tua agonia. Che cosa orribile, Momino, rantolare a quel modo! Non mi pareva vero che lo potessi far tu! E ti sei tutto… ah Dio! il letto, la camicia… Tu sempre così pulito! E quell’arrangolio fischiante, che faceva venir la disperazione a chi ti stava vicino, di non poterti far nulla… E non dimenticherò mai, mai, la lugubre veglia della notte appresso, con tutte le finestre aperte sul fiume. Vegliare di notte un morto, con un fiume che si sente scorrere sotto; affacciarsi alla finestra e vedere andar piccola piccola l’ombra di qualche passante sul ponte illuminato…
Intanto, bisogna dire la verità: tua moglie t’ha pianto molto, sai? e seguita. Io no, ma, stordito come sono ancora, ho pensato a tutto, io.
Mezzanotte, Momino: l’ora solita. Me ne vado a letto.
Che silenzio! Mi pare che tutta la notte intorno sia piena della tua morte. E questo ronzio del lumetto…
Basta. Qua, nella camera attigua, per me, un letto candido e soffice. Tu chiuso in una doppia cassa in quel grottino al Pincetto, Numero 51, povero Momino mio!
Non ho il coraggio di dirti buona notte.
II
Oggi mi sono accorto che anche i cimiteri sono fatti per i vivi.
Questo del Verano, poi, addirittura una città ridotta. I poveri, peggio che a pianterreno; i ricchi, palazzine di vario stile, giardinetto intorno, cappella dentro; e coltiva quello un giardiniere vivo e pagato, e officia in questa un prete vivo e pagato.
Per esser giusti, ecco due posti usurpati ai morti di professione, nel loro stesso domicilio.
Vi sono poi strade, piazze, viali, vicoli e vicoletti, ai quali farebbero bene a porre un nome, perché i visitatori vi si potessero meglio orientare: il nome del morto più autorevole: Via (o vicolo) Tizio; Viale (o piazza) Cajo.
Quando sarò anch’io dei vostri, Momo, se ci riuniamo qualche notte in assemblea, vedrai che farò questa e altre proposte, sia per l’affermazione, sia per la tutela dei nostri diritti e della nostra dignità. Che te ne pare, intanto, stasera, di queste mie riflessioni? Con questo po’ di vita che mi resta, non mi sento più di qua, caro Momo, dacché tu sei morto; e vorrei spenderlo, questo po’ di resto, per darvi come posso, qualche sollazzo. Ma scommetto che ora tu mi dici al solito che queste mie riflessioni non sono originali.
Bada ch’era davvero curiosa (ora te lo voglio dire), che tutto quello che mi scappava di bocca in tua presenza tu pretendevi d’averlo letto in qualche libro, del quale spesso dicevi di non rammentarti né il titolo né l’autore.
Io di me non presumo troppo: non leggo mai nulla, tranne qualche libro antico, di tanto in tanto. So – questo è vero – che, se mi picchio un po’ su la fronte, sento, perdio, che vi sta di casa un cervello; ma ignorante, sì; più di me è difficile trovarne un altro. Visto però che spesso i men savii sono coloro che si persuadono saper più, e fanno intanto le più scervellate pazzie; dovrei vergognarmene, non me ne vergogno.
Torniamo alla città ridotta.
Tua moglie ha commesso, secondo me, una di quelle sciocchezze, che non ho saputo mai tollerare in silenzio. Giudicane tu: si è impegnata nella spesa insostenibile d’una sepoltura privilegiata e temporanea per te.
Giacer morto in una tomba gentilizia o nel campo dei poveri o, nuda spoglia, ai piedi d’un albero o in fondo al mare o dove che sia, non è tutt’uno? Ugo Foscolo dice prima di sì, e poi di no, per certe sue nobili ragioni sociali e civili. Tu forse la pensi come Ugo Foscolo. Io no. Più vado avanti, io, e più odio la società e la civiltà. Ma lasciamo questo discorso. Fosse almeno una tomba fissa! Nossignori. Approfittando che nel Verano c’è pure l’est locanda, tua moglie ha preso a pigione per te uno di quei grottini detti loculi: venticinque lire per tre mesi, e poi dieci lire in più per ogni mese, dopo i tre.
Ora, capirai, questa spesa a mano a mano crescente, di qui a sette, otto mesi, tua moglie non potrà più, certo, sostenerla. E allora che avverrà?
Ma ella spera, dice, in uno sgombero. Mi spiego. Sai che nel cimitero, qualche volta, avvengono pure gli sgomberi, precisamente come in città? Sì. I morti sgomberano. O per dir meglio, i vivi superstiti, andando via da Roma, poniamo, per domiciliarsi in un’altra città, coi bauli e gli altri arredi di casa si portano via anche i loro morti, dei quali svendono la casa vecchia per comperarne loro una nuova nell’altro cimitero.
Che sciocco! le dico a te codeste cose, che ci stai e devi saperle. Ma io questa la imparo adesso, fresca fresca.
Ora, intendi? tua moglie spera in una di queste certo non frequenti occasioni. Io penso però che ella conta su tante cose che le verranno certo a fallire; e prima, che con tutta quella sua bravura nel parlar francese le debba durare tanto affetto e tal pensiero per te (ti chiedo licenza di dubitarne); e poi, che possa far tanti risparmi da accumulare quanto basti a comperar questa tomba, diciamo così, di seconda mano. E la pigione del loculo, in tutto questo tempo, chi la paga? Capisco che la pagherò io, – mi par di sentirmelo gridare da una vocina dentro la cassaforte qui accanto – ma ciò non toglie che non sia una segnalata pazzia.
E giacché siamo a questi discorsi angustiosi, intratteniamocene ancora un po’. Sai che sono metodico e meticoloso e che soglio tener conto di tutto. Sto facendo la nota delle spese mensili e ci sono anche quelle che ho fatte per te. Vogliamo parlare un po’ d’interessi come prima?
Ho cercato di far tutto, Momino mio (trasporto funebre, sotterramento, eccetera), con decenza, salvando quella modestia che tu hai tanto raccomandato nel tuo testamento. Ma mi sono accorto che a Roma quasi quasi costa più il morire che il vivere, che pur costa tanto, e tu lo sai. Se te la facessi vedere, questa noticina presentatami jeri dall’agente della nuova Società di pompe funebri, ti metteresti le mani ai capelli. Eppure, prezzi di concorrenza, bada! Ma quello che m’ha fatto groppo è stato il pretino unto e bisunto della parrocchia qua di San Rocco, che ha voluto venti lire per spruzzarti un po’ d’acqua su la bara e belarti un requiem… Ah, quando muojo io, niente! Già, al fuoco! È più spiccio e più pulito. Ognuno però la pensa a modo suo; e, pure da morti, abbiamo la debolezza di volerci in un modo, anziché in un altro. Basta.
Interessi.
Sai che ancora un po’ di quel che avevo, mi resta; sai che i bisogni miei sono limitatissimi e che ormai nessun desiderio più m’invoglia di sperare; tranne quello di morir presto, sperare che sia senza avvedermene.
Che si diceva? Ah, dico: che debbo farmene di questo poco che mi resta? Lasciarlo, dopo morto, in opere di carità? Prima di tutto, chi sa come e dove andrebbe a finire; poi, io non ho di queste tenerezze tardive per il prossimo in generale. Il prossimo, io voglio sapere come si chiama.
Orbene, poiché certe cose si scrivono meglio che non si dicano a voce, ho scritto a tua moglie che era mia ferma intenzione, e che anzi stimavo come dovere, continuare a fare per la vedova dell’unico amico mio quel ch’ero solito di fare per lui: contribuire, cioè, alle spese di casa.
Momo, prenditi questo decottino a digiuno. Sai come m’ha risposto tua moglie? M’ha ringraziato, prima di tutto, come si può ringraziare un qualunque estraneo; ma lasciamo andare; ha poi soggiunto che, per il momento, sì, dice, purtroppo si vede costretta a non ricusare i miei graziosi favori, perché avendo dischiavacciato lo stipetto, dove tu eri solito di riporre il sudor delle tue fatiche, dice, non vi ha trovato che sole lire cinquanta, con le quali evidentemente, dice, non è possibile pagar la pigione di casa che scade il giorno quindici, saldare alcuni conti con parecchi fornitori di commestibili e farsi un modesto abito da lutto di assoluta necessità.
Indovinerai dalle frasi che ti ho trascritte chi ha dettato a tua moglie questa lettera: i graziosi favori, il dischiavacciato, il sudor delle tue fatiche non possono uscire che dalla bocca di tuo cognato… cioè, no: verrebbe a essere di te cognato di tua moglie, è vero il signor Postella, insomma, il quale – te ne avverto di passata – ha preso definitivamente domicilio in casa tua insieme con la sua metà, e dormono nella stessa camera in cui sei morto, in cui dormivamo tu e io.
Andiamo avanti. La lettera mi annunziava, seguitando, alcuni disegni per l’avvenire: che tua moglie, cioè, spera, o almeno desidera, di trovar da lavorare in casa, o qualche dignitoso collocamento in una nobile famiglia, come lettrice o istitutrice, mettendo a profitto, dice, i preziosi ammaestramenti che tu le lasciasti in unica e cara eredità. Ma non ti dar pensiero neanche di questo. Finché ci sono qua io, sta’ pur sicuro che non ne farà di nulla. Intanto la lettera terminava con questa frase: «E fiducialmente La saluto!» – Fiducialmente! Dove va a pescarle le espressioni tuo cognato? Bada che è buffo sul serio!
E a proposito del dischiavacciato: la chiave dello stipetto dove l’hai lasciata? Non si è potuta trovare: e quel linguajo, lo vedi, ha dovuto ricorrere al dischiavacciamento. Questi napoletani, quando parlano l’italiano… Ma, chi sa! la troppa fretta d’aprire non gli avrà forse lasciato cercar bene e trovare la chiave… Mi dispiace per lo stipetto, ch’era roba nostra in comune: lo stipetto di mia madre, una santa reliquia per me. Basta. Parliamo d’altro.
Questa notte la mia giacca, posata su la poltrona a piè del letto, d’accordo col lumino da notte relegato sul pavimento in un angolo della camera, s’è divertita a farmi provare un soprassalto, combinandomi uno scherzetto d’ombra.
Dopo aver dormito un pezzo con la faccia al muro, nel voltarmi mi sono mezzo svegliato e ho avuto la momentanea impressione che qualcuno fosse seduto su la poltrona.
Ho subito pensato a te. Ma perché mi sono spaventato?
Ah se tu potessi veramente, anche come una fantasima, farti vedere da me, le notti; venire qua comunque a tenermi compagnia!
Ma già, potendo, tu te n’andresti da tua moglie, ingrato! Ella però ti chiuderebbe la porta in faccia, sai? o scapperebbe via dallo spavento. E allora tu te ne verresti qua da me, per essere consolato; e io seduto come sono adesso davanti al tavolino, e tu di fronte a me, converseremmo insieme, come ai bei tempi… Ti farei trovare ogni sera una buona tazza di caffè e tu, caffeista, giudicheresti se lo faccio meglio io, o tua moglie; la pipetta e il giornale. Così te lo leggeresti da te il giornale; perché io, sai, non c’è verso: non ci resisto; mi ci sono provato tre volte e ho dovuto smettere subito.
Mi sono confortato pensando che se io, vivo, posso farne a meno, a più forte ragione potrai farne a meno tu, ormai, non è vero?
Dimmi di sì, ti prego.
Tornando questa mattina dal cimitero, mi son sentito chiamare per Via Nazionale:
– Signor Aversa! Signor Aversa!
Mi volto; il nipote del notajo Zanti, uno di quei giovanotti che tu (non so perché) chiamavi discinti. Mi stringe la mano e mi dice:
– Quel povero signor Gerolamo! Che pena!
Chiudo gli occhi e sospiro. E il giovinotto:
– Dica, signor Tommaso, e la moglie… la vedova?
– Piange, poverina.
– Me l’immagino! Andrò oggi stesso a fare il mio dovere…
Molte visite di condoglianza riceverà tua moglie, Momino. E se fosse brutta e vecchia? Nessuna.
Anche a costo di parer crudele, bisogna che io ti abitui a queste notizie. Con l’andar del tempo, temo non debba dartene di assai peggiori. La vita è trista, amico mio, e chi sa quali e quante amarezze ci riserba.
Mezzanotte. Dormi in pace.
III
Che buffoni, amico mio, che buffoni!
Sono venuti stamane a trovarmi il signor Postella e quella montagna di carne ch’egli ha il coraggio di chiamare la sua metà. Sono venuti a trovarmi per chiarire, dice, la lettera che jeri mi scrisse tua moglie.
Capisci che fa tuo cognato? Prima scrive in quella razza di maniera, e poi viene a chiarire.
Basta… L’intima e vera ragione della sua visita d’oggi però avrà pur bisogno, vedrai, d’esser chiarita meglio da una seconda visita, domani.
Io almeno non ho saputo vederci chiaro abbastanza. M’è parso soltanto di dover capire che il signor Postella intende di far doppio giuoco e ho voluto metter subito le carte in tavola.
Veramente, prima l’ho lasciato dire e dire. Plinio insegna che le donnole, innanzi che combattano con le serpi, si muniscono mangiando ruta. Io fo meglio: mi munisco lasciando parlare il signor Postella; assorbisco il succo del suo discorso; poi lo mordo col suo stesso veleno.
Ah, se avessi visto come si mostrava afflitto della lettera di tua moglie: afflittissimo! E siccome non la finiva più, a un certo punto, per consolarlo, gli ho detto:
– Senta, caro signor Postella, lei ha non so se la disgrazia o la fortuna di possedere uno stile. Dote rara! se la guardi! Dica un po’, è forse pentito di quello che m’ha fatto scrivere jeri dalla moglie dell’amico mio?
Poveretto, non se l’aspettava. Ha battuto per lo meno cento volte di seguito le palpebre, per quel tic nervoso che tu gli sai; poi col risolino scemo di chi non vuol capire e finge di non aver capito:
– Come come?
La moglie non ha detto nulla, ma per lei ha scricchiolato la seggiola su cui stava seduta.
– Sì, badi, – ho ripreso io, impassibile – non desidererei di meglio, signor mio.
E allora è venuta fuori la spiegazione, durante la quale ho molto ammirato Postella moglie, che pendeva dalle labbra del marito e approvava col capo quasi a ogni parola, lanciandomi di tanto in tanto qualche sguardo, come per dirmi:
«Ma sente come parla bene?»
Io non so se quel baccellone di piano abbia mai posseduto un cervello; certo è che ora, se lo ha, non lo tiene più in esercizio, tale e tanta fiducia ripone in quello del marito, che è uno, sì, ma basta, secondo lei, per tutti e due, e ne avanza.
Per farla breve, il signor Postella ha confermato d’averla scritta lui la lettera; ma, beninteso! per espresso incarico di tua moglie, che nel dolore, dice, al quale tuttavia è in preda, non sentendosi in grado, dice, di stenderla lei, gliene suggerì i termini. Egli, il signor Postella, ne fu dolentissimo, ed ecco, me ne dava una prova con la sua visita d’oggi. Dall’altro canto però ha voluto scusar tua moglie, e che la scusassi anch’io considerando le delicate ragioni, dice, che le avevano consigliato di farmi scrivere in quel modo.
E qui s’è chiarito un equivoco, o meglio, un malinteso. Tua moglie, nel leggere la mia lettera – dove (promettendole che avrei continuato a far per lei quello che facevo per te) io avevo usato la frase contribuire alle spese di casa – ha capito, dice, ch’io volessi seguitare a vivere come per l’addietro, e cioè più a casa tua, che in queste tre stanzette mie… Ma, nel dirmi questo, le palpebre del signor Postella parevano addirittura impazzite sotto il mio sguardo a mano a mano più sdegnoso e sprezzante.
Io non mi faccio ombra d’illusione su la natura dei sentimenti di tua moglie per me: le antipatie sono reciproche. Ma non tua moglie, Momo, lui, lui, il signor Postella ha temuto invece che fosse mia intenzione seguitare nel solito andamento di vita, come se tu non fossi morto; guarda, ci metterei le mani sul fuoco. E avrà persuaso tua moglie a scrivermi a quel modo, dandole a intendere che la gente, altrimenti, avrebbe potuto malignare su lei e su me.
Si è assicurato così, che nessuno verrà più a molestarlo in casa di tua moglie.
Ma d’altra parte, poi, ha temuto che io, nel vedermi messo alla porta, per risposta, avrei chiuso la bocca al mio sacchetto, e allora, capisci? è venuto tutto sorridente a farmi scuse e cerimonie, che vorrebbero essere uncini per tirarmi a pagare.
– Ma stia tranquillo, caro signor Postella! – gli ho detto. – Stia tranquillo e rassicuri la signora, ch’io non verrò a disturbarla che assai di raro… – E stavo per aggiungere: «Tanto per saperne dare qualche notizia a Momino».
Ma qui proteste calorosissime del signor Postella, alle quali ha stimato opportuno di partecipare anche la moglie, ma con la mimica soltanto, quasi per rafforzare e rendere più efficaci i gesti del piccolo marito, che d’ajuto di parole non aveva bisogno.
Nelle ore pomeridiane di oggi, mi sono poi recato a casa tua, per intendermi con tua moglie.
Che impressione, Momo, la tua casa senza di te! La nostra, la nostra casa, Momino, senza di noi! Quei mobili nostri lì, subito dopo l’entratina, nella sala da pranzo con la portafinestra che dà sul terrazzino… Quella vecchia tavola massiccia, quadrata, che comperammo, Dio mio, trentadue anni fa in quella rivendita di mobili, per così poco… A rivederla, Momino, adesso, sotto la lampada a sospensione con quel berrettone rosso di cartavelina con cui l’ha parata tua moglie per paralume (eleganze di donnette nuove, che, lo sai, mi diedero subito ai nervi, appena tua moglie le portò; perché poi, tra l’altro, bisognava accorgersi che erano una stonatura tra la ruvida semplicità d’una casa patriarcale come la nostra) – basta, che dicevo? Ah, quella tavola, a rivederla… Il tuo posto… Ci stava su Ragnetta, sai? E m’è parsa più magra, povera bestiolina! Le ho grattato un po’ la testa, come facevi tu, dietro le orecchie. Nel mezzo della tavola, intanto, sul tappeto ho visto che c’era il solito portafiori; e nel portafiori, garofani freschi. Non ho potuto fare a meno di notarli, perché – capirai – in una casa da cui è uscito un morto appena otto giorni fa… quei fiori freschi… – Ma forse erano dei vasi del terrazzino. Fatto sta, a ogni modo, che tua moglie ha potuto pensar di coglierli e di metterli lì, sulla tavola, e non davanti al tuo ritratto sul cassettone.
Basta. Appena mi vide, uno scoppio di pianto. Io ho avuto come un singhiozzo nella gola, e volentieri avrei dato un gran pugno in faccia al signor Postella che, additandomela, quasi facesse la spiegazione d’un fenomeno in un baraccone da fiera, ha esclamato:
– Così da otto giorni: non mangia, non dorme..
«E la lasci piangere, signor mio, finché ne ha la buona volontà!», m’è venuto quasi di gridargli.
Ora, io non nego che possa esser vera la notizia del signor Postella; ma perché ha voluto darmela? Ha forse avuto il sospetto ch’io non volessi credere? Dunque, può non esser vero? Oh Dio, come sono spesso imbecilli le persone scaltre.
– Non posso farle coraggio, cara Giulia, perché sono più sconsolato di lei, – ho detto a tua moglie. – Pianga, pianga pure, giacché Lei ha codesto benedetto dono delle lagrime: Momo ne merita molte.
Ho sentito a questo punto un sospirone di tua cognata, che se ne stava con le mani intrecciate sul ventre, e mi sono interrotto per guardarla. Ella ha guardato invece, con que’ suoi occhi bovini, il marito, come per domandargli se aveva fatto male a sospirare e se stava in decretis.
– Perla d’uomo! – ha esclamato il signor Postella rispondendo allo sguardo della moglie e scrollando il capo. – Perla d’uomo!
Di’ grazie al signor Postella, Momino.
Non ho potuto dirglielo io, perché, non so, quella sua faccia, quei suoi modi mi mettono un tal prurito nelle mani, che, se dovessi fargli una carezza sento che lo schiaffeggerei voluttuosamente.
Egli se ne accorge e mi sorride.
Bella occupazione intanto, piangere e poter dire: «Non ho altro da fare!». Ho pensato questo guardando tua moglie, mentre io, impedito dai sospiri e dalle esclamazioni dei coniugi Postella, non potevo più parlare di te e non sapevo che dire e rimanevo lì impacciato e stizzito. Fui sul punto d’alzarmi e andarmene senza salutar nessuno; ma poi m’è sovvenuto lo scopo della visita, e ho detto senz’altro:
– Sono venuto, Giulia, per dirle che la sua lettera di jeri mi ha recato molto dispiacere. Questa mattina suo cognato, in casa mia, mi ha spiegato il malinteso sorto a cagione d’una mia frase…
Il signor Postella, che aveva drizzato le orecchie, qui m’interruppe, battendo le palpebre.
– Prego, prego…
– O parla lei, o parlo io! – gli ho intimato, brusco.
– Oh, ma… Parli lei…
– Dunque mi lasci dire. Prima di tutto, lei, cara Giulia, non doveva ringraziarmi affatto, di nulla.
– Come no? – fece a questo punto tua moglie, senza levar gli occhi dal fazzoletto.
– Proprio così, – le ho risposto io. – Son conti, Giulia, che ci faremo poi insieme Momo e io, nel mondo di là. Lei sa che, tra me e lui, non ci fu mai né tuo né mio. Non vedo la ragione d’un cambiamento, adesso. Momo per me non è morto. Lasciamo questo discorso. Se poi a Lei fa dispiacere ch’io venga qualche volta a pregarla di valersi di me in tutte le sue opportunità, me lo dica francamente, che io…
– Ma che dice mai, signor Tommaso! – esclamò tua moglie, interrompendomi. – Questa qui, lei lo sa bene, è casa sua; non è casa mia.
Mi venne fatto, non so perché, di guardare il signor Postella. Egli aprì subito le braccia mostrandomi le palme delle mani e fece col capo una mossettina e sorrise come per confermare le parole di tua moglie.
Faccia tosta! Mi sarei alzato; l’avrei preso per il bavero della giacca; gli avrei detto: «È casa mia? ne conviene? mi faccia dunque il piacere di levarmisi dai piedi!».
La moglie se ne stava quatta, musando, come una botta.
– È la casa di Momo, – ho risposto a Giulia infine, sillabando. – La casa di suo marito, non è mia.
– Ma se tutto qua appartiene a lei…
– Scusi, tutta quanta la casa non l’ha forse lasciata a lei, suo marito?
– Momo, – mi rispose tua moglie – non poteva lasciarmi ciò che non gli apparteneva.
– Come no? – ho esclamato io. – Ma che va pensare lei adesso?
– Vuole che non ci pensi? Ma si metta un po’ al posto mio… Vede come sono rimasta?
– Scusi, se lei non vuole tener conto di me, della casa che è sua, dell’ottima compagnia che potranno tenerle tanto sua sorella quanto il suo signor cognato…
– Io la ringrazio, signor Tommaso, e me le dichiaro gratissima per tutta la vita. Ma i suoi beneficii non posso più accettarli… Ci pensi, e m’intenderà… Per ora non mi sento in grado di dirle altro… Ne riparleremo, se non le dispiace, un’altra volta.
Sono rimasto stordito, Momino, come se mi avessero dato una gran legnata tra capo e collo. Tua moglie s’è alzata, ed è scappata via per nascondermi un nuovo scoppio di pianto.
Ho guardato il signor Postella, che mi ricambiò lo sguardo con aria di trionfo, come se volesse dire: «Vede che i termini della lettera erano proprio di lei?». Poi ha chiuso gli occhi ed ha aperto di nuovo le braccia, ma con un’altra espressione, stringendosi nelle spalle, come per significare:
«È fatta così! Bisogna compatirla…»
Secondo sospirone di tua cognata.
Stavo per prendere il cappello e il parapioggia, quando il signor Postella con la mano mi fece segno d’attendere, misteriosamente. Andò nella camera che è già divenuta sua e, poco dopo, ritornò con una scatolina in mano, nella quale ho veduto i tuoi tre anelli, l’orologio d’oro con la catena, due spille e la tabacchiera d’argento.
– Signor Aversa, se per caso volesse qualche ricordo dell’amico…
– Oh, grazie, non s’incomodi! – mi sono affrettato a dirgli. – Caro signor Postella, non ne ho bisogno.
– Intendo benissimo… Ma sa, siccome fa sempre piacere possedere qualche oggetto appartenuto a una persona cara, credo che…
– Grazie, grazie, no: vada a riporli, signor Postella.
– Se lo fa per Giulia, – ha insistito tuo cognato – le faccio notare che, essendo oggetti da uomo, credo che… Guardi, prenda l’orologio…
– Ma se non vuol nulla!… – si arrischiò di sospirare a questo punto Postella moglie.
– Tu non t’immischiare! – le diede subito su la voce il marito. – Il signor Tommaso lo fa per cerimonia. L’orologio solo, via… se lo prenda…
– Permetti? – riprese con timidezza la moglie. – Codesto orologio, Casimiro mio, al povero Momo lo aveva regalato appunto il signor Tommaso, quando tornò dal suo viaggio in Isvizzera…
– Ah sì? – fece il signor Postella rivolto a me, quasi con stupore, e mi parve che l’istinto predace gli sfavillasse negli occhi. – Ah sì? Scusi, e allora mi spieghi: sente che rumore fa?
E m’è toccato, Momino, di spiegargli il congegno del tuo orologio automatico: il martelletto che balza col moto della persona e carica così la macchina senza bisogno d’altra corda, ecc. ecc. Ti risparmio le frasi ammirative del signor Postella.
L’orso sogna pere, Momino: e di qui a qualche mese (e forse meno) se per caso ti venisse in mente di saper che ora è, va’ a domandarlo a tuo cognato, va’.
Ti avverto intanto che è mezzanotte, col mio.
IV
Come ti senti, Momino?
Di’ la verità: tu ti devi sentir male. Abbiamo tratto oggi dal loculo N. 51 al Pincetto la tua cassa per allogarla definitivamente in una modesta tomba che ti ho fatto costruire a mie spese per rimediare al primo errore di tua moglie, e che spettacolo, Momino! che spettacolo! L’ho ancora davanti agli occhi e non me lo posso levare.
Dissero i portantini che non ne avevano veduto mai uno simile; e trattarono quella tua cassa come una cosa molto pericolosa, non solo per loro, ma anche per noi che assistevamo alla cerimonia, voglio dire tua moglie, io, e i coniugi Postella che erano venuti con lei.
Pericolosa, Momino, perché, sai? quella tua cassa di zinco s’era tutta così enormemente gonfiata e deformata, che da un momento all’altro, Dio liberi, avrebbe potuto scoppiare.
I portantini spiegarono naturalmente il fenomeno, attribuendolo cioè a uno straordinario sviluppo di gas. Ma dalla fretta con cui il signor Postella accolse questa spiegazione per vincere lo sbigottimento da cui tutti a quella vista fummo invasi, mi sorse all’improvviso il sospetto che, oscuramente, dalla prima impressione di quella tua cassa così gonfiata un rimorso gli fosse nato, che non al gas, ma a ben altro si dovesse attribuire la causa di quella tua enorme gonfiatura.
E ti confesso che mi sentii rimordere anch’io Momino, per tutte le notizie che t’ho date. Temetti veramente, che la presenza nostra ti potesse far dare da un istante all’altro, a non star zitti, una così formidabile sbuffata, da scagliarci addosso quella tua cassa squarciata in mille pezzi da ogni parte.
Ma queste notizie, amico mio, tu dovresti ormai sapere perché e con che cuore io te le do; e non essere come gli altri che s’ostinano a non volere intendere perché venga tanta crudele apparenza di riso a tutto ciò che mi scappa dalla bocca. Come vuoi che faccia io, se mi diventa subito palese la frode che chiunque voglia vivere, solo perché vive, deve pur patire dalle proprie illusioni?
La frode è inevitabile, Momo, perché necessaria è l’illusione. Necessaria la trappola che ciascuno deve, se vuol vivere, parare a se stesso. I più non l’intendono. E tu hai un bel gridare: – Bada! bada! – Chi se l’è parata, appunto perché se l’è parata, ci dà dentro, e poi si mette a piangere e a gridare ajuto. Ora non ti pare che la crudeltà sia di questa beffa che fa a tutti la vita? E intanto dicono ch’è mia, solo perché io l’ho preveduta. Ma posso mai fingere di non capire, come tanti fanno, la vera ragione per cui quello ora piange e grida ajuto, e mostrare d’esser cieco anch’io, quando l’ho preveduta?
Tu dici:
– L’hai preveduta, perché tu non senti nulla!
Ma come e che potrei vedere e prevedere veramente, se non sentissi nulla, Momino? E come aver questo riso che par tanto crudele? Questa crudeltà di riso, anzi, tanto più è sincera, quanto e dove più sembra voluta, perché appunto strazia prima degli altri me stesso là dove esteriormente si scopre come un giuoco ch’io voglia fare, crudele. Parlando a te così, per esempio, di tutte queste amarezze, che dovrebbero esser tue, e sono invece mie.
Sai, poverina? era molto contenta però, oggi, tua moglie, e me lo diceva ritornando dal Verano, di saperti collocato bene ora, secondo i tuoi meriti in una tomba pulita, nuova e tutta per te.
L’ho accompagnata fino al portone di casa, poi, dopo il tramonto, mi sono recato a passeggiare lungo la riva destra del Tevere oltre il recinto militare, in prossimità del Poligono. E qua ho assistito a una scenetta commovente, o che m’ha commosso per la speciale disposizione di spirito in cui mi trovavo.
Per la vasta pianura, che serve da campo d’esercitazione alle milizie, una coppia di cavalli lasciati in libertà si spassavano a rincorrere un loro puledretto vivacissimo, il quale, springando di qua e di là e facendo mille sgambetti e giravolte, dimostrava di prender tanta allegrezza di quel giuoco. E anche il padre e la madre pareva che da tutto quel grazioso tripudio del figlio si sentissero d’un tratto ritornati giovani e in quel momento d’illusione si obliassero. Ma poco dopo, d’un tratto, come se nella corsa un’ombra fosse passata loro davanti, s’impuntarono, scossero più volte, sbruffando, la testa e, stanchi e tardi, col collo basso andarono a sdrajarsi poco discosto. Invano il figlio cercò di scuoterli, di aizzarli novamente alla corsa e al gioco; rimasero lì serii e gravi, come sotto il peso d’una grande malinconia; e uno, che doveva essere il padre, scrollando lentamente la testa alle tentazioni del puledrino, mi parve che con quel gesto volesse significargli: «Figlio, tu non sai ciò che t’aspetta…»
L’ombra già calata su la vasta pianura, faceva apparir fosco nell’ultima luce Monte Mario col cimiero dei cupi cipressi ritti nel cielo denso di vapori cinerulei, dai quali per uno squarcio in alto la luna assommava come una bolla.
Cattivo tempo, domani, Momino!
Eh, comincia a far freddo, e ho bisogno d’un soprabito nuovo e d’un nuovo parapioggia.
Ho preso l’abitudine, sai? di stare ogni notte a guardare a lungo il cielo. Penso: «Qualcosa di Momino forse sarà ancora per aria, sperduta qua in mezzo ai nuovi misteriosi spettacoli che gli saranno aperti davanti».
Perché sono nell’idea che c’è chi muore maturo per un’altra vita e chi no, e che quelli che non han saputo maturarsi su la terra siano condannati a tornarci, finché non avranno trovata la via d’uscita.
Tu, per tanti rispetti, t’eri ben maturato per un’altra vita superiore; ma poi, all’ultimo, volesti commettere la bestialità di prender moglie, e vedrai che ti faranno tornare soltanto per questo.
Neanch’io, per dir la verità, mi sento maturo per un’altra vita. Ahimè, per maturarmi bene, dovrei, con questo stomacuccio di taffetà che mi son fatto, digerir tante cose, che non riesco neppure a mandar giù: quel tuo signor Postella, per esempio!
Quanto mi piacerebbe, se ci facessero tornare tutti e due insieme! Sono sicuro che, pur non avendo memoria della nostra vita anteriore, noi ci cercheremmo su la terra e saremmo amici come prima.
Non rammento più dov’abbia letto d’una antica credenza detta del Grande Anno, che la vita cioè debba riprodursi identica fin nei menomi particolari, dopo trenta mil’anni, con gli stessi uomini, nelle medesime condizioni d’esistenza, soggetti alla stessa sorte di prima, e non solo dotati dei sentimenti d’una volta, ma anche vestiti degli stessi panni: riproduzione, insomma, perfetta.
Sarei propenso a immaginare tal credenza abbia avuto origine dal sogno di due esseri felici; ma poi non riesco a spiegarmi perché essi abbiano voluto assegnare un periodo così lungo al ritorno della loro felicità. Certo l’idea non poteva venire in mente a un disgraziato; e forse a nessuno oggi al mondo farebbe piacere la certezza che di qui a trenta mil’anni si ripeterà questa bella fantocciata dell’esistenza nostra. Il forte è morire. Morto, credo che nessuno vorrebbe rinascere. Che ne dici, Momino? Ah, tu già: ci hai qua tua moglie; me ne dimenticavo. Bisogna sempre parlare per conto proprio, a questo mondaccio.
…Mentre scrivo, in un bicchier d’acqua sul tavolino è caduto un insetto schifoso, esile, dalle ali piatte, a sei piedi, dei quali gli ultimi due lunghi, finissimi, atti a springare. Mi diverto a vederlo nuotare come un disperato, e osservo con ammirazione quanta fiducia esso serbi nell’agile virtù di que’ due suoi piedi. Morrà certo ostinandosi a credere che essi sono ben capaci di springare anche sul liquido, ma che intanto qualcosina attaccata alle estremità gl’impicci nel salto; difatti, riuscendo vano ogni sforzo, coi piè davanti, nettandoli vivacemente, cerca distrigarsene.
Lo salvo, Momino, sì o no?
Se lo salvo, esso senza dubbio ne darà merito ai suoi piedi: affoghi dunque! E se invece fosse una graziosa farfallina rassegnata a morire? L’avrei tratta fuori da un pezzo, accuratamente… Oh carità umana corrotta dall’estetica!
Ecco, o insetto infelice, il salvataggio: caccio la punta di questa penna nell’acqua, poi ti farò asciugare un po’ al calore del lume e infine ti metterò fuori della finestra. Ma l’acqua in cui sei caduto, se permetti, non la berrò. E di qui a poco tu, attirato novamente dal lume, forse rientrerai nella stanza e verrai a punzecchiarmi con la piccola proboscide velenosa. Ognuno fa il suo mestiere nella vita: io, quello del galantuomo, e t’ho salvato. Addio!
Notte serena. Mi trattengo un po’ alla finestra a contemplare le stelle sfavillanti.
Zrì, di tratto in tratto. È un pipistrello invisibile, che svola curioso, qui, davanti al vano luminoso aperto nel bujo della piazza deserta. Zrì: e par che mi domandi: «Che fai?»
– Scrivo a un morto, amico pipistrello! E tu che fai? Che cosa è mai codesta tua vita nottambula? Svoli, e non lo sai; come io, del resto, non so che cosa sia la mia; io che pure so tante cose, le quali in fondo non mi hanno reso altro servizio che quello di crescere innanzi a gli occhi miei, alla mia mente, il mistero, ingrandendomelo con le cognizioni della pretesa scienza: bel servizio davvero!
Che diresti tu, amico pipistrello, se a un tuo simile venisse in mente di scoprire un apparecchio da aggiustarti sotto le ali per farti volare più alto e più presto? Forse dapprima ti piacerebbe, ma, e poi?
Quel che importa non è volare più presto o più piano, più alto o più basso, ma sapere perché si vola.
E perché dovrebbe affrettarsi la tartaruga condannata a vivere una lunghissima vita?
Nelle nostre favole intanto chiamiamo tarda e pigra la tartaruga, la quale, per aver tanto tempo davanti a sé, non si dà nessuna fretta, e chiamiamo pauroso il coniglio che al primo vederci scappa via.
Ma se ai topi di campagna, ai grilli, alle lucertole, agli uccelli, noi domandassimo notizia del coniglio, chi sa che cosa ci risponderebbero, non certo però, che sia una bestia paurosa. O che forse pretenderebbero gli uomini che, al loro cospetto, il coniglio si rizzasse su due piedi e movesse loro incontro per farsi prendere e uccidere? Meno male che il coniglio non ci sente! meno male che non ha testa da ragionare a modo nostro; altrimenti avrebbe fondamento di credere che spesso tra gli uomini non debba correre molta differenza tra eroismo e imbecillità.
E se per caso alla volpe, che ha la fama di savia, venisse in mente di comporre favole in risposta a tutte quelle che da gran tempo gli uomini van mettendo fuori calunniando le bestie; quanta materia non le offrirebbero queste scoperte umane, pipistrello mio, e questa scienza umana.
Ma la volpe non ci si metterebbe, perché son sicuro che con la sua sagacia intenderebbe che, se per modo d’esempio, un favolista fa parlare un asino come un uomo sciocco, sciocco non è l’asino, ma asino è l’uomo.
Basta; chiudo la finestra, Momino: vado a letto.
Filosofia, eh? questa notte: un po’ animalesca veramente, con quei cavalli a principio, e poi con quell’insetto e ora il pipistrello e la tartaruga e il coniglio e la volpe e l’asino e l’uomo…
V
Comprendo che il tempo (quello almeno abbocconato in giorni e lunazioni e mesi dai nostri calendarii) per te ormai è come nulla; ma io mi ero fatta l’illusione che, per mio mezzo, un barlume di vita potesse inalbarti il bujo in cui sei caduto, e la mia voce, che pure è grossa, venir come vocina di ragnatelo a vellicare, non che altro, l’umido e nudo silenzio intorno a te.
Sono passati dieci mesi, Momo; te ne sei accorto? Ti ho lasciato al bujo dieci mesi, senza scriverti un rigo… Ma sta’ pur sicuro che non hai perduto nulla di nuovo: il mondo è sempre porco a un modo e sciocco forse un po’ peggio.
Non credere che t’abbia un solo istante dimenticato. Mi ha prima distratto dallo scriverti ogni sera la ricerca d’un nuovo alloggio; poi ho pensato: «Ma davvero non saprei adattarmi a vivere in queste tre stanzette? Perchè cerco una casa più ampia? per vedermi forse crescere attorno la solitudine?». E quest’ultimo pensiero mi ha gettato in preda a una tristezza indicibile.
Ah, per i vecchi che restano soli (e senza neanche la propria casa, aggiungi!) gli ultimi giorni sono proprio intollerabili.
Mi ritorna viva nell’anima l’impressione che provavo da giovine nel vedere per via qualche vecchio trascinare pesantemente le membra debellate dalla vita. Io li seguivo un tratto, assorto, quei poveri vecchi, osservando ogni loro movimento e le gambe magre, piegate, i piedi che pareva non potessero spiccicarsi da terra, la schiena curva, le mani tremule, il collo proteso e quasi schiacciato sotto un giogo disumano, di cui gli occhi risecchi, senza ciglia, nel chiudersi, esprimevano il peso e la pena. E provavo una profonda ambascia, ch’era insieme oscura costernazione e dispetto della vita, la quale si spassa a ridurre in così miserando stato le sue povere creature.
Per tutti coloro a cui torna conto restare scapoli, la porta della vita dovrebbe chiudersi su la soglia della vecchiaja, buono e tranquillo albergo soltanto per i nonni, cioè per chi vi entra munito del dolce presidio dei nipoti. Gli scapoli maturi dovrebbero interdirsene l’entrata, o entrarci appajati da fratelli, com’era mia intenzione. Ma tu, nel meglio, mi tradisti; frutto del tradimento, la tua morte affrettata: maggior danno però, forse, per me rimasto così solo e abbandonato, che per te colpevole verso l’amico di tanta ingiustizia, per non dire ingratitudine.
Lasciami sfogare: ho traversato un periodo crudele. A un certo punto, ho fatto le valige, e via!
Ho voluto rivedere i tre laghi e, con particolar desiderio, quello di Lugano che, date le condizioni d’animo con cui avevo intrapreso il primo viaggio, al tempo del tuo matrimonio, mi aveva fatto maggiore impressione.
Sono rimasto disilluso!
Eppure dicono che i vecchi non riescono a veder più le cose come sono, bensì come le hanno altra volta vedute.
Più d’ogni altro mi ha fatto dispetto un certo gruppo d’alberi, di cui avevo serbato memoria, che fossero altissimi e superbi. Li ho ritrovati all’incontro quasi nani e storti, umili e polverosi: li ho guardati a lungo, non credendo a gli occhi miei; ma erano ben dessi, senz’alcun dubbio, lì, al lor posto; e ho sentito in fine come se essi avessero risposto così alla mia disillusione:
«Hai fatto male, vecchio, a ritornare! Eravamo per te alberi altissimi e superbi; ma, vedi ora? Noi siamo stati sempre così, tristi e meschini…»
Senza i tuoi augurii, ho compito a Moltrasio sul lago di Como sessant’anni. In un’umile trattoria ho alzato il bicchiere e borbottato:
– Tommaso, crepa presto!
Sono ritornato a Roma l’altro jeri.
E ora dovrei venire alle cose brutte per te; ma sento che non mi è possibile.
L’immagine di quella tua cassa gonfia m’occupa come un incubo lo spirito, e penso che, se non è ancora scoppiata, scoppierebbe, se ti dicessi ciò che sta per avvenire a casa tua.
Io non ci posso portare, amico mio, nessun rimedio.
T’ho detto che in principio fui distratto dallo scriverti dalla ricerca d’una nuova casa; ma non te n’ho detto la vera ragione, come poi del mio viaggio lassù.
Ti basti sapere che tua moglie voleva che mi riprendessi i mobili di mia pertinenza, che sono ancora nella casa che fu nostra, e che, alla mia assicurazione che non sapevo più che farmene né dove metterli e che perciò se li tenesse pure considerandoli ormai come suoi, mi rimandò l’assegno mensile, dicendomi di non averne più bisogno.
Pare difatti che suo cognato abbia intrapreso non so che negozio molto lucroso su medicinali con un suo socio di Napoli, per cui la salute, amico mio, diventerà sempre più preziosa; perché, con questo negozio, povero a chi la perde e vorrà riacquistarla.
Tua moglie usufruirà indirettamente di questo negozio, perché quel socio di Napoli pare che abbia un fratello, e pare che questo fratello, venuto a Roma per concludere la società, la abbia conclusa includendovi, per conto suo, tua moglie.
Sì, amico mio. Ella sposerà tra poco questo fratello del socio di Napoli. Ma io non me ne sarei scappato in Isvizzera per un caso così ordinario, perdonami, e così facilmente prevedibile, se…
Insomma, Momo, faccio conto che la tua cassa sia già scoppiata, e te lo dico. Tua moglie, con l’ajuto del signor Postella, ha avuto il coraggio di farmi intendere chiaramente che a un solo patto avrebbe respinto la profferta di matrimonio di quel fratello del socio di Napoli. E sai a qual patto? A patto che la sposassi io. Capisci? Io. Tua moglie. E sai perché? Per usare un ultimo riguardo alla tua santa memoria.
Ebbene, Momo, credi ch’io me ne sia scappato in Isvizzera per indignazione? No, Momo. Me ne sono scappato, perché stavo per cascarci. Sì, amico mio. Come un imbecille. E se imbecille non ti basta, di’, di’ pure come vuoi. Mi piglio tutto. Non ha altra ragione quest’interruzione di dieci mesi nella nostra corrispondenza.
Fin dov’ero arrivato, fin dov’ero arrivato, amico mio! Ero arrivato fino al punto d’accordarmi col pensiero che tu stesso, proprio tu mi persuadessi a sposare tua moglie, con tante considerazioni che, sebbene fondate in un proponimento disperato, tuttavia mi pareva di doverle riconoscere una più giusta dell’altra, una più dell’altra assennata. Sì. Per te, e per lei, giuste e assennate. Per te, in quanto dovesse riuscirti assai meno ingrato che la sposassi io, tua moglie, anziché un estraneo, perché così tu potevi esser sicuro di rimaner sempre terzo in ispirito nella famiglia, senz’essere mai dimenticato. Per lei, in quanto, se da una parte non s’avvantaggiava lasciando di sposare uno molto più giovane di me, dall’altra certamente ci avrebbe guadagnato la sicurezza assoluta dell’esistenza, la tranquillità, il poter rimanere nella propria casa, senz’abbassamento o mutamento di stato. E poi il piacere velenoso per te di vedermi fare, anche più vecchio di te, quello per cui, in vita, tanto ti condannai.
Ho potuto capire a tempo, per fortuna, tutto l’orrore della vita, amico mio, nei riguardi di chi muore. E che un vero delitto è seguitare a dare ai morti notizie della vita: di quella stessa vita, di cui dentro di noi fu composta la loro realtà finché vissero, e che seguitando a durare nel nostro ricordo finché noi viviamo, è naturale che ormai senza difesa e immeritamente debba esserne straziata. Parlandoti della vita, potevo arrivare, come niente, povero Momino mio, a concludere queste notizie del mondo con l’inviarti in un cartoncino litografato la partecipazione delle mie nozze con tua moglie. Hai capito?
E dunque, basta, via. Finiamola.