Era il primo viaggio lungo di Didì. Da Palermo a Zùnica. Circa otto ore di ferrovia.
Zùnica per Didì era un paese di sogno, lontano lontano, ma più nel tempo che nello spazio. Da Zùnica infatti il padre recava un tempo, a lei bambina, certi freschi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva saputo più riconoscere, né per il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altri che il padre le aveva pur recati di là: celse more in rustici ziretti di terracotta tappati con pampini di vite; perine ceree da una parte e sanguigne dall’altra, con la corona; e susine iridate e pistacchi e lumie.
Tuttora, dire Zùnica e immaginare un profondo bosco d’olivi saraceni e poi distese di verdissimi vigneti e giardini vermigli con siepi di salvie ronzanti d’api e vivai muscosi e boschetti d’agrumi imbalsamati di zagare e di gelsomini, era per Didì tutt’uno, quantunque già da un pezzo sapesse che Zùnica era una povera arida cittaduzza dell’interno della Sicilia, cinta da ogni parte dai lividi tufi arsicci delle zolfare e da scabre rocce gessose fulgenti alle rabbie del sole, e che quei frutti, non più gli stessi della sua infanzia, venivano da un feudo, detto di Ciumìa, parecchi chilometri lontano dal paese.
Aveva queste notizie dal padre: lei non era mai stata più là di Bagheria, presso Palermo, per la villeggiatura: Bagheria, sparsa tra il verde, bianca, sotto il turchino ardente del cielo. L’anno scorso, era stata anche più vicino, tra i boschi d’aranci di Santa Flavia, e ancora con le vesti corte.
Ora, per il viaggio lungo fino a Zùnica indossava anche, per la prima volta, una veste lunga.
E le pareva d’esser già un’altra. Una damina proprio per la quale. Aveva lo strascico finanche negli sguardi; alzava, a tratti, le sopracciglia come a tirarlo su, questo strascico dello sguardo; e teneva alto il nasino ardito, alto il mento con la fossetta, e chiusa la bocca. Bocca da signora con la veste lunga; bocca che nasconde i denti, come la veste lunga i piedini.
Se non che, seduto dirimpetto a lei, c’era Cocò, il fratello maggiore, quel birbante di Cocò il quale, col capo abbandonato su la spalliera rossa dello scompartimento di prima classe, tenendo gli occhi bassi e la sigaretta attaccata al labbro superiore, di tanto in tanto le sospirava, stanco:
– Didì, mi fai ridere.
Dio, che rabbia! Dio, che prurito nelle dita!
Ecco: se Cocò non si fosse rasi i baffi come voleva la moda, Didì glieli avrebbe strappati, saltandogli addosso come una gattina.
Invece, sorridendo con le ciglia alzate, gli rispondeva, senza scomporsi:
– Caro mio, sei un cretino.
Ridere della sua veste lunga e anche, se vogliamo, delle arie che si dava, dopo il serio discorso che le aveva tenuto la sera avanti a proposito di questo viaggio misterioso a Zùnica…
Era o non era, questo viaggio, una specie di spedizione, un’impresa, qualcosa come la scalata a un castello ben munito in cima a una montagna? Erano o non erano macchine da guerra per quella scalata le sue vesti lunghe? E dunque, che c’era da ridere se lei, sentendosi armata con esse per una conquista, provava di tratto in tratto le armi col darsi quelle arie?
Cocò, la sera avanti, le aveva detto che finalmente era venuto il tempo di pensare sul serio ai casi loro.
Didì aveva sgranato tanto d’occhi.
Casi loro? Che casi? Ci potevano esser casi anche per lei, a cui pensare, e per giunta sul serio?
Dopo la prima sorpresa, una gran risata.
Conosceva una persona sola, fatta apposta per pensare ai casi suoi e anche a quelli di tutti loro: donna Sabetta, la sua governante, intesa donna Bebé, o donna Be’, come lei per far più presto la chiamava. Donna Be’ pensava sempre ai casi suoi. Investita, spinta, trascinata da certi suoi furibondi impeti improvvisi, la poveretta fingeva di mettersi a frignare e, grattandosi con ambo le mani la fronte, gemeva:
– Oh benedetto il nome del Signore, mi lasci pensare ai casi miei, signorina!
La prendeva per donna Be’, adesso, Cocò? No, non la prendeva per donna Be’. Cocò, la sera avanti, le aveva assicurato che proprio questi benedetti cari loro c’erano, e serii, molto serii, come quella sua veste lunga da viaggio.
Fin da bambina, vedendo andare il padre ogni settimana e talvolta anche due volte la settimana a Zùnica, e sentendo parlare del feudo di Ciumìa e delle zolfare di Monte Diesi e d’altre zolfare e poderi e case, Didì aveva sempre creduto che tutti questi beni fossero del padre, la baronia dei Brilla.
Erano, invece, dei marchesi Nigrenti di Zùnica. Il padre, barone Brilla, ne era soltanto l’amministratore giudiziario. E quell’amministrazione da cui per vent’anni al padre era venuta la larga agiatezza, della quale loro due, Cocò e Didì, avevano sempre goduto, sarebbe finita tra pochi mesi.
Didì era veramente nata e cresciuta in mezzo a quell’agiatezza; aveva poco più di sedici anni; ma Cocò ne aveva ventisei; e Cocò serbava una chiara, per quanto lontana memoria dei gravi stenti tra cui il padre s’era dibattuto prima d’esser fatto, per maneggi e brighe d’ogni sorta, amministratore giudiziario dell’immenso patrimonio di quei marchesi di Zùnica.
Ora, c’era tutto il pericolo di ricadere in quegli stenti che, se anche minori, sarebbero sembrati più duri dopo l’agiatezza. Per impedirlo, bisognava che riuscisse, ora, ma proprio bene e in tutto, il piano di battaglia architettato dal padre, e di cui quel viaggio era la prima mossa.
La prima, no, veramente. Cocò era già stato a Zùnica col padre, circa tre mesi addietro, in ricognizione; vi si era trattenuto quindici giorni, e aveva conosciuto la famiglia Nigrenti.
La quale era composta, salvo errore, di tre fratelli e di una sorella. Salvo errore, perché nell’antico palazzo in cima al paese c’erano anche due vecchie ottuagenarie, due zônne (zie-donne), che Cocò non sapeva bene se fossero dei Nigrenti anche loro, cioè se sorelle del nonno del marchese o se sorelle della nonna.
Il marchese si chiamava Andrea; aveva circa quarantacinque anni e, cessata l’amministrazione giudiziaria, sarebbe stato per le disposizioni testamentarie il maggior erede. Degli altri due fratelli, uno era prete – don Arzigogolo, come lo chiamava il padre – l’altro, il così detto Cavaliere, un villanzone. Bisognava guardarsi dall’uno e dall’altro, e più dal prete che dal villanzone. La sorella aveva ventisette anni, un anno più di Cocò, e si chiamava Agata, o Titina: gracile come un’ostia e pallida come la cera; con gli occhi costantemente pieni d’angoscia e con le lunghe mani esili e fredde che le tremavano di timidezza, incerte e schive. Doveva essere la purezza e la bontà in persona, poverina: non aveva mai dato un passo fuori del palazzo: assisteva le due vecchie ottuagenarie, le due zônne; ricamava e sonava «divinamente» il pianoforte.
Ebbene: il piano del padre era questo: prima di lasciare quell’amministrazione giudiziaria, concludere due matrimoni: dare cioè a Didì il marchese Andrea, e Agata a lui, Cocò.
Didì al primo annunzio era diventata in volto di bragia e gli occhi le avevano sfavillato di sdegno. Lo sdegno era scoppiato in lei più che per la cosa in se stessa, per l’aria cinicamente rassegnata con cui Cocò la accettava per sé e la profferiva a lei come una salvezza. Sposare per denari un vecchio, uno che aveva ventotto anni più di lei?
– Ventotto, no, – le aveva detto Cocò, ridendo di quella vampata di sdegno. – Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualche mese.
– Cocò, mi fai schifo! Ecco: schifo! – gli aveva allora gridato Didì, tutta fremente, mostrandogli le pugna.
E Cocò:
– Sposo la Virtù, Didì, e ti faccio schifo? Ha un annetto anche lei più di me; ma la Virtù, Didì mia, ti faccio notare, non può esser molto giovane. E io n’ho tanto bisogno! sono un discolaccio, un viziosaccio, tu lo sai: un farabutto, come dice papà: metterò senno: avrò ai piedi un bellissimo pajo di pantofole ricamate, con le iniziali in oro e la corona baronale, e un berretto in capo, di velluto, anch’esso ricamato, e col fiocco di seta, bello lungo. Il baronello Cocò La Virtù… Come sarò bello, Didì mia!
E s’era messo a passeggiare melenso melenso, col collo torto, gli occhi bassi, il bocchino appuntito, le mani una su l’altra, pendenti dal mento, a barba di capro.
Didì, senza volerlo, aveva sbruffato una risata.
E allora Cocò s’era messo a rabbonirla, carezzandola e parlandole di tutto il bene che egli avrebbe potuto fare a quella poveretta, gracile come un’ostia, pallida come la cera, la quale già, nei quindici giorni ch’egli s’era trattenuto a Zùnica, aveva mostrato, pur con la timidezza che le era propria, di vedere in lui il suo salvatore. Ma sì! certamente! Era interesse dei fratelli e specie di quel così detto Cavaliere (il quale aveva con sé, fuori del palazzo, una donnaccia da cui aveva avuto dieci, quindici, venti, insomma, non si sa quanti figliuoli) ch’ella restasse nubile, tappata lì a muffir nell’ombra. Ebbene, egli sarebbe stato il sole per lei, la vita. La avrebbe tratta fuori di lì, condotta a Palermo, in una bella casa nuova: feste, teatri, viaggi, corse in automobile… Bruttina era, sì; ma pazienza: per moglie, poteva passare. Era tanto buona poi, e avvezza a non aver mai nulla, si sarebbe contentata anche di poco.
E aveva seguitato a parlare a lungo, apposta, di sé solamente, su questo tono, cioè del bene che pur si riprometteva di fare, perché Didì, stuzzicata così da una parte e, dall’altra, indispettita di vedersi messa da canto, alla fine domandasse:
– E io?
Venuta fuori la domanda, Cocò le aveva risposto con un profondo sospiro:
– Eh, per te, Didì mia, per te la faccenda è molto, ma molto più difficile! Non sei sola.
Didì aveva aggrottato le ciglia.
– Che vuol dire?
– Vuol dire… vuol dire che ci sono altre attorno al marchese, ecco. E una specialmente… una!
Con un gesto molto espressivo Cocò le aveva lasciato immaginare una straordinaria bellezza.
– Vedova, sai? Su i trent’anni. Cugina, per giunta…
E, con gli occhi socchiusi, s’era baciate le punte delle dita.
Didì aveva avuto uno scatto di sprezzo.
– E se lo pigli!
Ma subito Cocò:
– Una parola, se lo pigli! Ti pare che il marchese Andrea… (Bel nome, Andrea! Senti come suona bene: il marchese Andrea… In confidenza però potresti chiamarlo Nenè, come lo chiama Agata, cioè Titina, sua sorella.) È davvero un uomo, Nenè, sai? Ti basti sapere che ha avuto la… La come si chiama… La fermezza di star vent’anni chiuso in casa. Vent’anni, capisci? non si scherza… dacché tutto il suo patrimonio cadde sotto amministrazione giudiziaria. Figurati i capelli, Didì mia, come gli sono cresciuti in questi venti anni! Ma se li taglierà. Puoi esserne sicura, se li taglierà. Ogni mattina, all’alba, esce solitario… ti piace? solitario e avvolto in un mantello, per una lunga passeggiata fino alla montagna. A cavallo, sai? La cavalla è piuttosto vecchiotta, bianca; ma lui cavalca divinamente. Sì, divinamente, come la sorella Titina suona divinamente il pianoforte. E pensa, oh, pensa che da giovine, fino a venticinque anni, cioè finché non lo richiamarono a Zùnica per il rovescio finanziario, lui «fece vita», e che vita, cara mia! fuori, in Continente, a Roma, a Firenze; corse il mondo; fu a Parigi, a Londra… Ora pare che da giovanotto abbia amato questa cugina di cui t’ho parlato, che si chiama Fana Lopes. Credo si fosse anche fidanzato con lei. Ma, venuto il dissesto, lei non volle più saperne e sposò un altro. Adesso che egli ritorna nel primiero stato… capisci? Ma è più facile che il marchese, guarda, per farle dispetto, sposi un’altra cugina, zitellona questa, una certa Tuzza La Dia, che credo abbia sospirato sempre in segreto per lui, pregando Iddio. Dati gli umori del marchese e i suoi capelli lunghi, dopo questi venti anni di clausura, è temibile anche questa zitellona, cara Didì. Basta – aveva concluso la sera avanti Cocò, – ora chinati, Didì, e tienti con la punta delle dita l’orlo della veste su le gambe.
Stordita da quel lungo discorso, Didì s’era chinata, domandando:
– Perché?
E Cocò:
– Te le saluto. Quelle ormai non si vedranno più!
Gliele aveva guardate e le aveva salutate con ambo le mani; poi, sospirando, aveva soggiunto:
– Rorò! Ricordi Rorò Campi, la tua amichetta? Ricordi che salutai le gambe anche a lei, l’ultima volta che portò le vesti corte? Credevo di non dovergliele più rivedere. Eppure gliele rividi!
Didì s’era fatta pallida pallida e seria.
– Che dici?
– Ah, sai, morta! – s’era affrettato a risponderle Cocò. – Morta, te lo giuro, gliele rividi, povera Rorò! Lasciarono la cassa mortuaria aperta, quando la portarono in chiesa, a San Domenico. La mattina io ero là, in chiesa. Vidi la bara, tra i ceri, e mi accostai. C’erano attorno alcune donne del popolo, che ammiravano il ricco abito da sposa di cui il marito aveva voluto che fosse parata, da morta. A un certo punto, una di quelle donnette sollevò un lembo della veste per osservare il merletto della sottana, e io così rividi le gambe della povera Rorò.
Tutta quella notte Didì s’era agitata sul letto senza poter dormire.
Già, prima d’andare a letto, aveva voluto provarsi ancora una volta la veste lunga da viaggio, davanti allo specchio dell’armadio. Dopo il gesto espressivo, con cui Cocò aveva descritto la bellezza di colei… come si chiamava? Fana… Fana Lopes… – si era veduta, lì nello specchio, troppo piccola, magrolina, miserina… Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi quel tanto, pochino pochino, delle gambe che aveva finora mostrato, e subito aveva pensato alle gambe di Rorò Campi, morta.
A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite; immaginandosi morta anche lei, dentro una bara, con l’abito da sposa, dopo il matrimonio col marchese Andrea dai capelli lunghi…
Che razza di discorsi, quel Cocò!
Ora, in treno, Didì guardava il fratello sdrajato sul sedile dirimpetto e si sentiva prendere a mano a mano da una gran pena per lui.
In pochi anni aveva veduto sciuparsi la freschezza del bel volto fraterno, alterarsi l’aria di esso, l’espressione degli occhi e della bocca. Le pareva ch’egli fosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorgeva negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle, segnatamente sotto gli occhi. Sapeva ch’egli rincasava tardissimo ogni notte; che giocava; sospettava altri vizi in lui, più brutti, dalla violenza dei rimproveri che il padre gli faceva spesso, di nascosto a lei, chiusi l’uno e l’altro nello scrittojo.
E che strana impressione, di dolore misto a ribrezzo, provava da alcun tempo nel vederlo da quella trista vita impenetrabile accostarsi a lei; al pensiero che egli, pur sempre per lei buon fratellino affettuoso, fosse poi, fuori di casa, peggio che un discolo, un vizioso, se non proprio un farabutto, come tante volte nell’ira gli aveva gridato in faccia il padre. Perché, perché non aveva egli per gli altri lo stesso cuore che per lei? Se era così buono per lei, senza mentire, come poteva poi, nello stesso tempo, essere così tristo per gli altri?
Ma forse la tristezza era fuori: fuori, là, nel mondo, ove a una certa età, lasciati i sereni, ingenui affetti della famiglia, si entrava coi calzoni lunghi gli uomini, con le vesti lunghe le donne. E doveva essere una laida tristezza, se nessuno osava parlarne, se non sottovoce e con furbeschi ammiccamenti, che indispettivano chi – come lei – non riusciva a capirci nulla; doveva essere una tristezza divoratrice, se in sì poco tempo suo fratello, già così fresco e candido, s’era ridotto a quel modo; se Rorò Campi, la sua amicuccia, dopo un anno appena, ne era morta…
Didì si sentì pesare sui piedini, fino al giorno avanti liberi e scoperti, la veste lunga, e ne provò un fastidio smanioso: si sentì oppressa da una angoscia soffocante, e volse lo sguardo dal fratello al padre, che sedeva all’altro angolo della vettura, intento a leggere alcune carte d’amministrazione, tratte da una borsetta di cuojo aperta su le ginocchia.
Entro quella borsetta, foderata di stoffa rossa, spiccava lucido il turacciolo smerigliato di una fiala. Didì vi fissò gli occhi e pensò che il padre era, da anni, sotto la minaccia continua d’una morte improvvisa, potendo da un istante all’altro essere colto da un accesso del suo male cardiaco, per cui portava sempre con sé quella fiala.
Se d’un tratto egli fosse venuto a mancarle… Oh Dio, no, perché pensare a questo? Egli, pur con quella fiala lì davanti, non ci pensava. Leggeva le sue carte d’amministrazione e, di tratto in tratto, si aggiustava le lenti insellate su la punta del naso; poi, ecco, si passava la mano grassoccia, bianca e pelosa, sul capo calvo, lucidissimo; oppure staccava gli occhi dalla lettura e li fissava nel vuoto, restringendo un po’ le grosse palpebre rimborsate. Gli occhi ceruli, ovati, gli s’accendevano allora di un’acuta vivezza maliziosa, in contrasto con la floscia stanchezza della faccia carnuta e porosa, da cui schizzavano, sotto il naso, gl’ispidi e corti baffetti rossastri, già un po’ grigi, a cespugli.
Da un pezzo, cioè dalla morte della madre, avvenuta tre anni addietro, Didì aveva l’impressione che il padre si fosse come allontanato da lei, anzi staccato così, che lei, ecco, poteva osservarlo come un estraneo. E non il padre soltanto: anche Cocò. Le pareva che fosse rimasta lei sola a vivere ancora della vita della casa, o piuttosto a sentire il vuoto di essa, dopo la scomparsa di colei che la riempiva tutta e teneva tutti uniti.
Il padre, il fratello s’erano messi a vivere per conto loro, fuori di casa, certo; e quegli atti della vita, che seguitavano a compiere lì insieme con lei, erano quasi per apparenza, senza più quella cara, antica intimità, da cui spira quell’alito familiare, che sostiene, consola e rassicura.
Tuttora Didì ne sentiva un desiderio angoscioso, che la faceva piangere insaziabilmente, inginocchiata innanzi a un antica cassapanca, ov’erano conservate le vesti della madre.
L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce, lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, a inebriarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice.
Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana, con la scomparsa di lei; tutte le cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre. E che sarebbe avvenuto domani? Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto, quella smania di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a colmarglielo, quel vuoto, e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?
Le giornate eran passate per Didì come nuvole davanti alla luna.
Quante sere, senz’accendere il lume nella camera silenziosa, non se n’era stata dietro le alte invetriate della finestra a guardar le nuvole bianche e cineree che avviluppavano la luna! E pareva che corresse la luna, per liberarsi da quei viluppi. E lei era rimasta a lungo, lì nell’ombra, con gli occhi intenti e senza sguardo, a fantasticare; e spesso gli occhi, senza che lei lo volesse, le si erano riempiti di lagrime.
Non voleva esser triste, no; voleva anzi esser lieta, alacre, vispa. Ma nella solitudine, in quel vuoto, questo desiderio non trovava da sfogarsi altrimenti che in veri impeti di follia, che sbigottivano la povera donna Bebé.
Senza più guida, senza più nulla di consistente attorno, non sapeva che cosa dovesse fare della vita, qual via prendere. Un giorno avrebbe voluto essere in un modo, il giorno appresso in un altro. Aveva anche sognato tutta una notte, di ritorno dal teatro, di farsi ballerina, sì, e suora di carità la mattina dopo, quand’erano venute per la questua le monacelle del Boccone del povero. E un po’ voleva chiudersi tutta in se stessa e andar vagando per il mondo assorta nella scienza teosofica, come Frau Wenzel, la sua maestra di tedesco e di pianoforte; un po’ voleva dedicarsi tutta all’arte, alla pittura. Ma no, no: alla pittura veramente, no, più: le faceva orrore, ormai, la pittura, come se avesse preso corpo in quell’imbecille di Carlino Volpi, figlio del pittore Volpi, suo maestro, perché un giorno Carlino Volpi, venuto invece del padre ammalato, a darle lezione… Com’era stato?… Lei, a un certo punto, gli aveva domandato:
– Vermiglione o carminio?
E lui, muso di cane:
– Signorina, carminio… così!
E l’aveva baciata in bocca.
Via, da quel giorno e per sempre, tavolozza, pennelli e cavalletto! Il cavalletto glielo aveva rovesciato addosso e, non contenta, gli aveva anche scagliato in faccia il fascio dei pennelli, e lo aveva cacciato via, senza neanche dargli il tempo di lavarsi la grinta impudente, tutta pinticchiata di verde, di giallo, di rosso.
Era alla discrezione del primo venuto, ecco… Non c’era più nessuno, in casa, che la proteggesse. Un mascalzone, così, poteva entrarle in casa e permettersi, come niente, di baciarla in bocca. Che schifo le era rimasto, di quel bacio! S’era stroppicciate fino a sangue le labbra; e ancora a pensarci, istintivamente, si portava una mano alla bocca.
Ma aveva un bocca, veramente?… Non se la sentiva! Ecco: si stringeva forte forte, con due dita, il labbro, e non se lo sentiva. E così, di tutto il corpo. Non se lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lontana?… Tutto era sospeso, fluido e irrequieto dentro di lei.
E le avevano messo quella veste lunga, ora così… su un corpo, che lei non si sentiva. Assai più del suo corpo pesava quella veste! Si figuravano che ci fosse qualcuna, una donna, sotto quella veste lunga, e invece no; invece lei, tutt’al più, non poteva sentirvi altro, dentro, che una bambina; sì, ancora, di nascosto a tutti, la bambina ch’era stata, quando tutto ancora intorno aveva per lei una realtà, la realtà della sua dolce infanzia, la realtà sicura che sua madre dava alle cose col suo alito e col suo amore. Il corpo di quella bimba, sì, viveva e si nutriva e cresceva sotto le carezze e le cure della mamma. Morta la mamma, lei aveva cominciato a non sentire più neanche il suo corpo, quasi che anch’esso si fosse diradato, come tutt’intorno la vita della famiglia, la realtà che lei non riusciva più a toccare in nulla.
Ora, questo viaggio…
Guardando di nuovo il padre e il fratello, Didì provò dentro, a un tratto, una profonda, violenta repulsione.
Si erano addormentati entrambi in penosi atteggiamenti. Ridondava al padre da un lato, premuta dal colletto, la flaccida giogaja sotto il mento. E aveva la fronte imperlata di sudore. E nel trarre il respiro, gli sibilava un po’ il naso.
Il treno, in salita, andava lentissimamente, quasi ansimando, per terre desolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro intenso e cupo del cielo. Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino della vettura; solo, di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, arido anch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena.
Dove la conducevano quei due, che anche lì la lasciavano così sola? A un’impresa vergognosa. E dormivano! Sì, perché, forse, era tutta così, e non era altro, la vita. Essi, che già c’erano entrati, lo sapevano; c’erano ormai avvezzi e, andando, lasciandosi portare dal treno, potevano dormire… Le avevano fatto indossare quella veste lunga per trascinarla lì, a quella laida impresa, che non faceva più loro alcuna impressione. Giusto lì la trascinavano, a Zùnica, ch’era il paese di sogno della sua infanzia felice! E perché ne morisse dopo un anno, come la sua amichetta Rorò Campi?
L’ignota attesa, l’irrequietezza del suo spirito, dove, in che si sarebbero fermate? In una cittaduzza morta, in un fosco palazzo antico, accanto a un vecchio marito dai capelli lunghi… E forse le sarebbe toccato di sostituire la cognata nelle cure di quelle due vecchie ottuagenarie, seppure il padre fosse riuscito nella sua insidia.
Fissando gli occhi nel vuoto, Didì vide le stanze di quel fosco palazzo. Non c’era già stata una volta? Sì, in sogno, una volta, per restarvi per sempre… Una volta? Quando? Ma ora, ecco… e già da tanto tempo, vi era, e per starvi per sempre, soffocata nella vacuità d’un tempo fatto di minuti eterni, tentato da un ronzio perpetuo, vicino, lontano, di mosche sonnolente nel sole che dai vetri pinticchiati delle finestre sbadigliava sulle nude pareti gialle di vecchiaia, o si stampava polveroso sul pavimento di logori mattoni di terracotta.
Oh Dio, e non poter fuggire… non poter fuggire… Legata com’era, qua, dal sonno di quei due, dalla lentezza enorme di quel treno, uguale alla lentezza del tempo là, nell’antico palazzo, dove non si poteva far altro che dormire, come dormivano quei due…
Provò a un tratto in quel fantasticare che assumeva nel suo spirito una realtà massiccia, ponderosa, infrangibile, un senso di vuoto così arido, una così soffocante e atroce afa della vita, che istintivamente, proprio senza volerlo, cauta, allungò una mano alla borsetta di cuojo, che il padre aveva posato, aperta, sul sedile. Il turacciolo smerigliato della fiala aveva già attratto con la sua iridescenza lo sguardo di lei.
Il padre, il fratello seguitavano a dormire. E Didì stette un pezzo a esaminare la fiala, che luceva col veleno roseo. Poi, quasi senza badare a quello che faceva, la sturò pian piano e lentamente l’accostò alle labbra, tenendo fissi gli occhi ai due che dormivano. E vide, mentre beveva, che il padre alzava una mano, nel sonno, per scacciare una mosca, che gli scorreva su la fronte, lieve.
A un tratto, la mano che reggeva la fiala le cascò in grembo, pesantemente. Come se gli orecchi le si fossero all’improvviso sturati, avvertì enorme, fragoroso, intronante il rumore del treno, così forte che temette dovesse soffocare il grido che le usciva dalla gola e gliela lacerava… No… ecco, il padre, il fratello balzavano dal sonno… le erano sopra… Come aggrapparsi più a loro?
Didì stese le braccia; ma non prese, non vide, non udì più nulla.
Tre ore dopo, arrivò, piccola morta con quella sua veste lunga, a Zùnica, al paese di sogno della sua infanzia felice.