E m’è avvenuto, accostandomi per la prima volta all’angolo della stanza ove già le ombre cominciano a vivere, di trovarvene una che non m’aspettavo, ombra solo da jeri.
– Ma come, Mamma? Tu qui?
È seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare, e di qua la vetrina che luccica di ricca suppellettile da tavola, di là il balcone che dà su la via larga del grosso borgo marino, per dove passa monotona tutti i giorni, stridente di carri, la solita vita, di traffico per gli altri, di tedio per lei; né più si vede davanti i cari nipotini dai dolci occhi intenti ai suoi racconti, e quegli altri due che più, certo, le è doluto di lasciare: il vecchio compagno della sua vita, la figliuola più amata, quella che fino all’ultimo la circondò di vigile adorazione.
Curva, tutta ripiegata su se stessa per schermire gli spasimi interni, con le pugna sui ginocchi e su le pugna la fronte, sta qua, su quel suo seggiolone che le ricorda tutte le cure della casa e il tormento dei lunghi pensieri nell’ozio forzato, i viaggi dell’anima tra le memorie lontane e il lungo soffrire e anche, sì, le sue ultime gioje di nonna.
Alla mia domanda:
– Ma come, Mamma? Tu qui?
alza la fronte dai ginocchi e mi guarda con quegli occhi che hanno ancora la luce dei venti anni ma in un bianco volto molle e smunto dal male e dall’età; mi guarda e m’accenna di si, che è voluta venire per dirmi quello che non poté per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita.
– D’esser forte, Mamma, mi dici, in questo momento di prova suprema per tutti? Forse sì… ma tu, Mamma? Proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, ove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno, quando più cupa e fredda mi doleva la vita, per rischiararmi e riscaldarmi al lume e al calore dell’amor tuo, che mi rifaceva ogni volta bambino.. .
Solleva con pena le palpebre e atteggia il volto a un sorriso di pena, tenendosi sul grembo le povere piccole mani che tanto hanno lavorato; quasi per nascondere il male, ov’esso gliele ha più torturate e offese. E non quelle mani soltanto si tiene così, ma dentro così anche l’anima, per nascondere dove più le vicende della vita gliel’hanno offesa, ove più qualche parola degli altri gliela toccano al vivo, e per non dire, attraverso quel sorriso di pena, se non ciò che conviene, non tanto per sé quanto per gli altri. E dice:
– Non dovevo? Ma io non l’ho voluto, figlio, benché tanto stanca, lo sai, e con tanto bisogno di riposare dal troppo male di questa mia vita troppo lunga, ah lunga oltre ogni previsione dei miei tanti dolori… È venuta! Non la volevo. Per te non la volevo e per tutti gli altri, ma più per te che, lo so, giustamente domandavi che il mio cuore t’accompagnasse in quest’ansia angosciosa per il tuo figliuolo che combatte lassù… E t’ha accompagnato, figlio, il mio cuore; e forse per questo, anche… No no, che c’entri tu? Non ha potuto lui, vecchio, correr troppo come doveva dietro alla tua ansia, e s’è fermato… Ma meglio per me così, meglio, credi. Per te lo dico, perché tu trovi in questo un conforto al dolore per la mia morte. Non potevo riposare; vedi il mio corpo com’era ridotto? L’anima, sì… quella! ma anche il cuore, sai: benché così stanco di battere… anch’esso, dentro, era quello di prima, con dentro ancora tutta, tutta la sua vita, ma pure l’infanzia, sai? tutta la sua vita, anche coi giuochi che facevo, piccola, coi miei piccoli fratelli, e tutti i visi e gli aspetti delle cose d’allora, così vivi, ma cosi vivi nel senso che aveva allora la vita per me, che tante volte questa vita di poi m’e sembrata un sogno d’attorno e non quella già lontana e pur cosi presente qui, nel mio cuore. Eh! perché la vita, figlio, tu lo sai, noi la diamo ai figli perché la vivano loro e ci contentiamo se qualcosa ancora di riflesso ne venga a noi; ma non ci sembra più nostra; la nostra, per noi, dentro, resta sempre quella che non demmo ma che ci fu data, a nostra volta; quella che, per quanto nel tempo s’allunghi, serba dentro pur sempre il primo sapore d’infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d’allora com’essi la avevano fatta per noi… Tu puoi saperlo, quale fu questa mia vita, perché tante volte io te ne parlai; ma altro è viverla, figlio, una vita…
Tentenna il capo e gli occhi brillano vivi del fremito interno dei ricordi.
– È la mia!… Fu pur triste, dapprima… La tirannide… I Borboni… A tredici anni, con mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle, una anche più piccola di me ed anche due fratellini più piccoli, noi otto e pur cosi soli, per mare, in una grossa barca da pesca, una tartana, verso l’ignoto. Malta… Mio padre, compromesso nelle congiure e per le sue poesie politiche escluso dall’amnistia borbonica dopo la rivoluzione del 1848, era là, in esilio. E forse allora io non potevo intenderlo, non l’intendevo tutto il dolore di mio padre. L’esilio – far piangere così una mamma, e lo sgomento, e togliere a tanti bambini la casa, i giuochi, l’agiatezza – voleva dir questo; ma anche quel viaggio per mare voleva dire, con quella gran vela bianca della tartana che sbatteva allegra nel vento, alta alta nel cielo, come a segnar con la punta le stelle, e nient’altro che mare intorno, così turchino che quasi pareva nero; e lo sgomento ancora, a guardarlo; ma anche quell’infantile orgoglio della sventura che fa dire a un bimbo vestito di nero: «Io sono a lutto, sai?» come se fosse un privilegio sopra gli altri bimbi non vestiti di nero; e anche l’ansia di tante cose nuove da vedere, che ci aspettavamo di vedere con certi occhi fissi fissi che per ora non vedono nulla, fuorché la mamma là che piange tra i due figli maggiori che sanno e capiscono, loro sì… e allora noi piccoli, le cose da vedere di là, nell’ignoto, pensiamo che forse non saranno belle. Ma l’isola di Gozzo, prima… poi Malta… belle! con quel golfo grande grande, d’un azzurro aspro, luccicante d’aguzzi tremolii, e quel paesello bianco di Bùrmula, piccolo in una di quelle azzurre insenature… Belle da vedere le cose, se non ci fosse qua la mamma che seguita a piangere… E poi presto dovemmo capire anche noi piccoli, non più piccoli presto. Venivano i grandi, nella nostra casa, a trovare mio padre; e tutti erano tristi e cupi, come sordi; e pareva che ciascuno parlasse per sé a quello che vedeva: la patria lontana, ove il dispotismo restaurato rifaceva strazio di tutto; e ogni loro parola pareva scavasse nel silenzio una fossa. Loro erano qua, ora, impotenti. Nulla da farci! E chi appena poteva, per non struggersi lì in quella rabbiosa disperazione, partiva per il Piemonte, per l’Inghilterra… Ci lasciavano. Con sette figli e la moglie, mio padre che altro poteva, se non dire addio a tutti quelli che se n’andavano, addio anche alla vita che se n’andava? La rabbia e il peso di quell’impotenza, l’avvilimento di vivere dell’elemosina d’un fratello che era stato costretto a cantare nella Cattedrale con gli altri del Capitolo il Te Deum per Ferdinando lo stesso giorno della partenza di lui per l’esilio; un cordoglio senza fine, la sfiducia che non avrebbe veduto il giorno della vendetta e della liberazione, ce lo consunsero a poco a poco, a quarantasei anni. Ci chiamò tutti attorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto un pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa. Ritornò la vedova, ritornammo noi sette orfani in patria, mendichi alla porta di quello zio che finora ci aveva mantenuti nell’esilio: veramente santo, veramente santo, perché il bene che ci fece e continuò a farci, senza mai un lamento, era a costo per lui di paure da vincere ogni giorno, d’offese da sopportare fingendo di non notarle, offese alle sue abitudini, alle sue opinioni, ai suoi sentimenti, e anche a costo di certe piccole grettezze da superare, che ce lo rendevano tanto più caro, quanto più vedevamo ch’egli cercava di sottrarvisi con comici sotterfugi, con ingenue arti che ci facevano sorridere pietosamente. Tante volte tu sentisti dire da me: «Lo zio canonico!». Ma che puoi sapere di quella sua casa antica, com’era, che sapore di vita vi alitava, com’era lui, piccolo (grande di busto) piccolo di gambe, così piccolo piccolo che in piedi era più corto che seduto, ma bello di volto, e poi con un certo suo curioso intercalare: «Càttari! Càttari! avrei potuto giurare, effettivamente…» mentre si guardava le unghie, con gli occhi bassi. E la paura che aveva dei tuoni! e certe prepotenti curiosità proibite che lo traevano a leggere di nascosto nella Battaglia di Benevento la storia dei papi e di tratto in tratto lo sentivamo gridare, mentre richiudeva di furia il libro e vi dava un pugno sopra: «Ma questo è un pazzo!» e poco dopo tornava a leggervi daccapo. Povero zio! Fummo pure ingrati qualche volta… quella volta per esempio, che la sbirraglia borbonica venne a fare una perquisizione anche nella casa di lui, per i miei fratelli ch’erano già cresciuti e congiuravano, e io giovanetta, nel vederlo troppo impaurito e troppo ossequioso tremare innanzi a quei musi, gli gridai: «Ma non abbia paura lei! Costoro lo sanno bene che lei andò a cantare ile Deum alla Cattedrale quando un fratello fu mandato in esilio!».
E lui, poverino, mogio mogio, s’allontanò esclamando e guardandosi al solito le unghie: «Càttari, che femmina, càttari che femmina!». Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al presidio borbonico nella stess’ora che a Palermo un altro dei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici! Tu puoi intenderla ora la nostra ansia mortale, in quel giorno per questi due fratelli, uno qua, l’altro là… Sì, è per il figlio ora la tua ansia; ma c’era anche la mamma con noi allora, e l’ansia era anche per noi. Quando, dopo lo scampo miracoloso dei miei fratelli, i gendarmi ritornarono a perquisire la casa, mia madre ci dispose, noi figliuole, ciascuna presso un balcone e ci ordinò: «Se vi mettono le mani addosso, buttatevi giù». Fiera donna di stampo antico, mia madre! Per mesi e mesi, figurati, per tutto il tempo che durò la prigionia dei garibaldini dopo Aspromonte non volle che si desse alcuna notizia della famiglia a quello più piccolo dei miei fratelli che si trovava, ufficiale dei bersaglieri, nell’esercito, solo per la supposizione che fosse stato anche lui tra i fucilatori di Garibaldi e contro all’altro fratello ch’ebbe la ventura di raccogliere in quell’infausta giornata lo stivale forato e insanguinato del Generale. Che giornata, quella! eppure la vita vostra, di voi miei figliuoli, dipende forse da essa! quando quei mio fratello ritornò dalla prigionia nella caserma di San Benigno a Genova, tutto il popolo qua lo condusse quasi in trionfo alla madre e a noi che lo aspettavamo festanti; e fu allora ch’io conobbi per la prima volta vostro padre, reduce anche lui d’Aspromonte, garibaldino anche lui del Sessanta, carabiniere genovese. Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l’animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria. Con quest’animo e col mio, la vita che vi abbiamo data, figliuoli miei, nei tempi inerti e sordi che sono seguiti, non poteva esser lieta; lo so! E la so, ora, la tua pena, figlio, che forse è la stessa che a me, donna, mi bruciò tanto nell’anima: di non poter fare e di veder fare agli altri quello che avremmo voluto far noi e che per noi sarebbe stato niente, mentre ci par tanto e tanto ci fa soffrire, che lo facciano gli altri… Ma ecco, per questo appunto io sono venuta, figlio mio, per dirti questo, che tu l’hai voluta questa guerra, contro tanti che non la volevano e lo sapevi che se poco ti sarebbe costato sacrificare in essa la tua vita, tanto, troppo invece ti sarebbe costato il solo rischio di quella del tuo figliuolo. E l’hai voluta. Tu paghi, dunque, di sofferenze più che se fossi andato… Ti basti. E Dio risparmi il tuo figliuolo! Avrei voluto, pur soffrendo, durare ancora fino alla vittoria. Ma pazienza! Non ho rinunziato a un dolore; avrò perduto una gioja, poiché la vittoria è certa. Mi basta che per me rimanga a vederla tuo padre. Voi, del resto, tu che mi sei stato sempre lontano, così da lontano, pensatemi ancora viva! Non sono io forse viva sempre per te?
– Oh, Mamma, sì! – io le dico. – Viva, viva, sì… ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t’immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: «Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei». E questo mi sosteneva, mi confortava.
Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…
L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre.
Mi alzo; m’accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d’acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s’abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. È un moto d’onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé.
Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:
«Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle».