Quello che sto per raccontare è la situazione più strana che abbia mai vissuto in tutta la vita.
Ho usato apposta l’aggettivo “strana” perché non saprei come altro definirla: non capisco esattamente cosa sia accaduto, non so perché successo e soprattutto, ancora adesso, non sono certa di niente riguardo a quella sera.
È difficile estrapolare solo quell’immagine distaccandola dal contesto, ma cercherò di dare la mia visione dei fatti per far capire che cosa ho visto e sentito io poiché è delle mie capacità di giudizio che dubito: io ero nuda, seduta un po’ ricurva su una sedia di bambù con un’enorme spalliera lavorata ad intarsi, la testa poggiata allo schienale, le braccia flesse leggermente, quasi distese sui braccioli. Ero nella casa di campagna di mia nonna, lei era uscita ed io ero sola in casa.
Mi ero abbandonata su quella specie di trono rustico dopo un bagno caldo, che aveva ammorbidito la realtà delle cose e redento i ricordi dal loro senso.
La separazione da mio marito era ancora fresca, non era passata una settimana da quando mi ero rifugiata nella tranquilla, calma e distesa campagna che tante volte mi aveva accolto da bambina, uno dei posti più cari che avessi al mondo.
Con le gambe poggiate sulla vasca e le mani sul ventre ancora bagnate, mi guardavo, consapevole di essere ancora bella. La mia quasi giovinezza era iridescente, non ero cambiata tanto negli anni, non nell’aspetto per lo meno. Stessi capelli lunghi e biondi, pelle diafana e liscia, corpo da adolescente.
La vasca poggiava su quattro piccoli piedi a forma di conchiglia striati d’azzurro ed era ancora piena d’acqua profumata; la luce che filtrava dalle veneziane in legno vecchio era così calda e la sensazione di pace talmente dolce da farmi quasi male. Tutto quello che mancava in un pomeriggio così era un Martini molto secco con due olive.
Quasi il tramonto, mi alzai per rivestirmi e in una frazione di secondo lo scenario cambiò completamente.
Non li avevo sentiti entrare, non sapevo da quanto tempo fossero lì, fermi a guardarmi. Erano in due, piuttosto alti e corpulenti, con nessun tratto peculiare che potesse definirli, vestiti nello stesso modo, una tuta da lavoro sporca e malconcia.
Nel complesso avevano un aspetto ripugnante, o forse era la ripugnanza che avvertivo per quello che sapevo sarebbe successo di lì a poco. Quando mi girai e i nostri sguardi si incrociarono, loro non tradirono alcun tipo di emozione, rimasero fermi per un altro mezzo minuto, prima di attraversare la stanza e venire velocemente verso di me. Si mossero contemporaneamente a passo svelto, sembravano due enormi ratti che si precipitavano su un boccone di cibo appena fiutato nell’aria e poi intravisto.
Ed io rimasi lì, immobile ad analizzare minuziosamente ogni dettaglio, tanto che ora posso raccontarlo, calma e distaccata come tutte le volte in cui mi trovo in pericolo. Non so perché accade, contrariamente a quello che il buon senso dovrebbe suggerirmi: scappare e mettermi in salvo; io non scappo, non urlo e non escogito piani per difendermi perché la mia mente si rifiuta di accettare la realtà, rifiuta di comunicarmi che sono nei guai, il mio cervello si annebbia e va da un’altra parte.
L’unico senso spia che funziona, che prelude alla paura, è il pizzicore da brivido ai glutei e all’attaccatura dei capelli.
Il pizzicore è inequivocabile, quando lo sento so con certezza ciò che devo provare, ma dura solo un attimo, poi l’annebbiamento comincia, la mia testa va altrove ed io non ci sono più.
Pensavo a quanto mi ero sentita inadeguata da bambina senza un giusto abito da cerimonia durante il matrimonio di una cugina di mia madre… vedevo i tavoli apparecchiati, sentivo l’odore dei confetti e delle decorazioni floreali. Ero corsa via dalla festa per dirigermi verso casa, senza chiedere il permesso a nessuno, e cambiarmi d’abito, scegliendone uno che mi sembrava più adatto.
Potrei descrivere esattamente quello che c’era nell’armadio e la precisa disposizione di ogni vestito, giacca e gonna appesa quel giorno.
Fu la motilità invadente degli eventi a riportarmi in quella stanza: uno dei due mi prese per un braccio, stringendolo così forte da sprofondare con le dita fino all’osso. Urlai dal dolore, non erano esseri umani normali, non poteva essere.
Il sangue gocciava sul pavimento con un’incommensurabile tristezza. Il dolore mi invase e si diffuse, partendo dallo stomaco e giungendo ovunque, avevo gli occhi pieni di lacrime e la mano di uno di loro mi schiacciava con forza inaudita la bocca bloccandomi la mascella.
Non ero lucida per via del dolore, immagino fossi in una specie di shock per la violenza e lo stupro ma a tratti, ogni tanto, mi pareva di sentirli dire qualcosa.
Erano parole, qualche pronome, qualcosa che dicevano e pareva si riferissero a me ma utilizzavano il maschile: “prendilo”, oppure, “giralo” o “non farlo svenire”.
Non riuscivo a capire molto e fin quando non smisero di abusare di me non mi fu possibile capire di più. Poi mi venne la mezza idea, credevo folle per altro, di guardarmi, di abbassare lo sguardo e controllare e così feci, rimanendo esterrefatta: avevo genitali maschili e mani da uomo.
Certo gli occhi erano pesti, non ci vedevo benissimo, alcuni capillari dovevano essere esplosi, vedevo macchie rosse, ma non avevo più il seno, era evidente. Per non parlare dei genitali, esterni, esposti, un pene di tutto riguardo.
Non riuscii a respirare più, svenni.
Quando mi svegliai ero ancora per terra, mi faceva male tutto, la sensazione di dolore era paralizzante, i ricordi erano confusi. Flashback delle botte e dello stupro mi tornarono in mente e un conato di vomito mi colse all’improvviso. Mi pulii la bocca e la sentii, quella mano estranea, grossa e diversa, essenzialmente diversa.
La guardai e lì mi ricordai della mia mutazione, se così si può dire. Era ancora in atto, ero ancora un uomo. Misi la mano sul pene e non ci potevo credere a quanto sia la mano sia il membro fossero avulse al mio corpo.
Non durò molto, fui un uomo solo per quel giorno, credo, anche se non ne sono certa.
Racconto di Tomas Horne, concorso letterario 2013 Squarciare i silenzi