Già il presente non si può andar a cercare né sul calendario né sull’orologio che si guardano solo per stabilire la propria relazione al passato o per avviarci con una parvenza di coscienza al futuro. Io le cose e le persone che mi circondano siamo il vero presente.
Il mio presente si compone di varii tempi anch’esso: Ecco un primo lunghissimo presente: l’abbandono degli affari. Dura da otto anni. Un’inerzia commovente. Poi ci sono avvenimenti importantissimi che lo frazionano. Il matrimonio di mia figlia per esempio, un avvenimento ben passato che s’inserisce nell’altro lungo presente, interrotto – o forse rinnovato o, meglio, corretto – dalla morte del marito. La nascita del mio nipotino Umberto anch’essa lontana perché il presente vero in rapporto a Umberto è l’affetto che oramai gli porto, una sua conquista di cui egli non sa neppure e che crede spettargli per nascita. O crede qualche cosa in genere quel minuscolo animo? Il suo, il mio presente in rapporto a lui, è proprio il suo piccolo passo sicuro interrotto da paure dolorose che sono però curate dalla compagnia di pupattoli quando non sa conquistarsi l’assistenza della mamma o la mia, del nonno. Il mio presente è anche Augusta com’è ora – poverina! – con le sue bestie cani, gatti e uccelli, e la sua indisposizione eterna di cui non vuole curarsi con l’energia voluta. Fa quel poco che le prescrive il dottor Raulli e non vuole ascoltare né me – che con forza sovrumana seppi vincere la stessa tendenza, la decompensazione del cuore – né Carlo, nostro nipote (il figlio di Guido) ritornato da poco dall’Università e che perciò conosce i medicinali più moderni.
Certo, gran parte del mio presente, proviene dalla farmacia. Incominciò tale presente in un’epoca che non saprei precisare ma fu ad ogni momento tagliato da medicinali e concetti nuovi. Dov’è andato il tempo in cui credevo di aver provvisto a tutti i bisogni del mio organismo ingerendo ogni sera una buona dose di polvere di liquerizia composita o di quei semplici bromuri in polvere o in brodo? Adesso con l’aiuto di Carlo ho a disposizione ben altri mezzi di lotta contro la malattia. Carlo mi dice tutto quello che sa, io, invece, non tutto quello che immagino perché ho paura ch’egli non sia d’accordo con me e mi rovini con obbiezioni il castello ch’io cercai con tanto sforzo e che mi concede una tranquillità, una sicurezza che le persone della mia età di solito non hanno. Un vero castello! Carlo crede ch’io accetti sì prontamente ogni suo suggerimento per fiducia in lui. Macché! Io so ch’egli sa molte cose e cerco di apprenderle e praticarle tutte ma con discrezione. Le mie arterie sono in disordine e di questo non c’è dubbio. L’estate scorsa arrivai a una pressione del sangue di 240 mm. Non so se per quella causa od altra, fu quello un periodo di abbattimento grande. Finì che il joduro in grandi dosi eppoi un altro specifico di cui mai ricordo il nome, portarono la pressione a 160 ove finora rimase… Interruppi un momento di scrivere per andar a provarla sulla macchinetta che ho sempre pronta sul mio tavolo. È proprio 160! Prima m’ero sempre sentito minacciato dal colpo apoplettico che proprio sentivo arrivare. La vicinanza della morte non mi rendeva veramente buono perché poco amavo tutti coloro che dal colpo non erano minacciati ed avevano l’aspetto odioso di gente sicura che compiange, commisera e si diverte.
Ma, guidato da Carlo, io curai anche degli organi che in nessun modo avevano domandato aiuto. Ma si capisce che ogni mio organo può sentirsi stanco dopo tanti anni di lavoro e gli giovi d’essere aiutato. Io invio loro il soccorso non domandato. Tante volte, quando capita la malattia, il medico sospira: Sono stato chiamato troppo tardi! È meglio perciò prevedere. Non posso imprendere delle cure per il fegato quando non diede segno di essere ammalato ma non posso mica espormi a finire come il figliuolo di un mio amico che a 32 anni in piena salute, un bel giorno si fece giallo come un cocomero per un assalto violento d’itterizia eppoi in quarant’otto ore morì. «Non era stato mai ammalato» mi diceva il povero padre «era un colosso e dovette morire». Molti colossi finiscono male. Io l’ho osservato e sono ben contento di non essere un colosso. Ma la prudenza è una bella cosa ed io ogni lunedì mando in regalo al mio fegato una pillola che lo protegga da improvvise acute malattie almeno fino al lunedì seguente. Le reni sono sorvegliate da me con analisi periodiche e finora non diedero mai segno di essere ammalate. Ma io so che possono aver bisogno di un soccorso. La dieta esclusivamente lattea al martedì mi dà una certa sicurezza per il resto della settimana. Sarebbe bella che gli altri che alle reni mai pensano abbiano un loro funzionamento sicuro mentre io che ad esse ogni settimana porto un sacrificio possa essere rimeritato improvvisamente con la sorpresa che toccò al povero Copler.
Cinque anni or sono, circa, io fui disturbato da una bronchite cronica che m’impediva il sonno e m’obbligava talvolta di saltare dal letto e passare ogni notte varie ore seduto in poltrona. Il dottore non volle dirmelo ma si trattava certo anche di debolezza cardiaca. Raulli mi prescrisse allora di cessar di fumare, di dimagrare e di mangiare poca carne. Visto che cessar di fumare era difficile cercai di completare la prescrizione rinunciando del tutto alla carne. Il dimagrare neppure era facile. Pesavo allora novantaquattro chilogrammi netti. In tre anni riuscii a diminuire di due chilogrammi e perciò per arrivare al peso desiderato dal Raulli avrei abbisognato di altri diciott’anni. Ma era un po’ difficile mangiare poco quando si deve astenersi dalla carne.
Devo qui confessare che il mio dimagrimento lo devo proprio a Carlo. Fu uno dei suoi primi successi curativi. Egli mi propose di saltare uno dei tre miei pasti quotidiani ed io risolsi di sacrificare la cena che noi a Trieste prendiamo alle otto di sera a differenza degli altri italiani che fanno colazione a mezzo dì e prendono il pranzo alle sette. In ogni giorno digiuno ininterrottamente per diciott’ore.
Intanto dormii meglio. Sentii subito che il cuore non occupato più dal travaglio della digestione poteva dedicare ogni suo battito ad irrorare le vene, ad allontanare i detriti dall’organismo, a nutrire soprattutto i polmoni. Io che avevo già provato l’orrenda insonnia, l’agitazione enorme di chi anela alla pace e proprio perciò la smarrisce, giacevo là inerte ad attendere pacifico il calore e il sonno che arrivava lungo, una vera parentesi nella vita affaticante. Il sonno dopo la lauta colazione è tutt’altra cosa: Allora il cuore provvede alla sola digestione ed è esonerato da qualunque altra cura.
Si provò così prima di tutto ch’io ero meglio adatto ad astenermi che a moderarmi. Era più facile non cenare affatto che limitare il cibo a colazione e di mattina. Qui non c’erano oramai altre limitazioni. Due volte al giorno potevo mangiare quanto volevo. Ciò non nuoceva perché poi seguivano 18 ore di autofagia. In un primo tempo la colazione di pasta asciutta e legumi era completata da alcune uova. Poi abolii anche queste non per volere del Raulli o di Carlo ma in seguito ai consigli assennati di un filosofo, Erberto Spencer, il quale scoperse una certa legge per cui gli organi che – per sovranutrizione – si sviluppano troppo rapidamente, sono meno forti di quelli che impiegano maggior tempo a crescere. Si trattava di bambini, naturalmente, ma io sono convinto che il ricambio sia anch’esso uno sviluppo e che anche un bambino di settant’anni fa bene ad amare i suoi organi piuttosto che sovranutrirli. Poi Carlo fu molto d’accordo col mio teorema anzi talvolta vorrebbe far credere di averlo inventato lui.
In questo sforzo di rinunziare alla cena mi fu di grande utilità il fumo col quale, per la prima volta in mia vita, mi riconciliai anche in teoria. Il fumatore sa digiunare meglio degli altri. Una buona fumata addormenta qualsiasi appetito. È proprio al fumo che io credo di dovere di aver saputo ridurre il peso del mio corpo a ottanta chilogrammi netti. Una grande tranquillità quella di fumare ora per misura igienica. Si fuma un poco di più a coscienza perfettamente tranquilla. In fondo la salute è uno stato veramente miracoloso. Raggiunto da una collaborazione di varii organi le cui funzioni conosciamo ma mai interamente (come lo ammette persino Carlo che ha tutta la scienza, persino quella della nostra ignoranza) è da credersi che la salute perfetta non esiste mai. Altrimenti sarebbe anche più miracoloso che cessi.
Le cose che si muovono potrebbero moversi eternamente. Perché no? Non è questa la legge in cielo dove è certo vige la stessa legge che in terra? Ma io so che dalla nascita in poi anche la malattia è prevista e preparata. Da bel principio qualche organo è più debole e lavora con qualche sforzo e costringe a qualche sforzo qualche organo fraterno e dove c’è lo sforzo s’ingenera la fatica e perciò, infine, la morte.
Perciò, solo perciò, la malattia seguita dalla morte non rivela alcun disordine nella nostra natura. Io sono troppo ignorante per sapere se lassù in cielo, com’è quaggiù in terra, ci sia infine anche la possibilità della morte e della riproduzione. Io so soltanto che qualche stella e anche qualche pianeta ha dei movimenti meno completi. È certo che un pianeta che non rotea su se stesso è zoppo o cieco o gobbo.
Ma fra i nostri organi c’è uno ch’è il centro, quasi il sole in un sistema planetario. Fino a pochi anni or sono si credeva fosse il cuore. A quest’ora tutti sanno che la nostra vita dipende dall’organo sessuale. Carlo torce il naso dinanzi alle operazioni di ringiovanimento ma anche lui quando si parla di organi sessuali si leva il cappello. Dice: Se si arrivasse a ringiovanire gli organi sessuali certo si ringiovanirebbe tutto l’organismo. Ciò non mi fu appreso. Lo avrei saputo da me solo. Ma non ci si riuscirà. È impossibile. Dio sa quale sia l’effetto della glandola della scimmia. Forse l’operato al vedere una bella donna si sente indotto ad arrampicarsi sull’albero più vicino. È anche questo un atto abbastanza giovanile.
Si capisce: Madre natura è maniaca, ha cioè la mania della riproduzione. Tiene in vita un organismo finché può sperare che si riproduca. Poi lo ammazza e lo fa nei modi più diversi per quell’altra sua mania di restare misteriosa. Non amerebbe di rivelare il suo pensiero ricorrendo sempre alla stessa malattia per sopprimere i vecchi. Una malattia che renda chiara la ragione della nostra morte, un piccolo cancro sempre allo stesso posto.
Io sono stato sempre molto intraprendente. Esclusa l’operazione volli truffare madre natura e farle credere ch’io sempre ancora fossi atto alla riproduzione e mi presi un’amante. Fu questa la relazione più calma ch’io m’abbia avuta in vita mia: Prima di tutto io non la sentii quale un trascorso, o quale un tradimento ad Augusta. Sarebbe stato un bizzarro sentimento questo: A me pareva che quella di prendermi un’amante fosse una decisione equivalente a quella di entrare in una farmacia.
Poi naturalmente le cose si complicarono un poco. Si finisce coll’accorgersi che una intera persona non si può usare quale un medicinale: È un medicinale complesso contenente anche una proporzione forte di veleno. Io non ero ancora ben vecchio. È una storia di tre anni fa e contavo dunque 67 anni: Non ero ancora un vegliardo. Perciò anche il mio cuore che quale organo di secondaria importanza nell’avventura non sarebbe dovuto entrare, finì col parteciparvi. E così avvenne che qualche giorno anche Augusta ebbe un vantaggio dalla mia avventura e fu accarezzata, amata, compensata come all’epoca di Carla. Il curioso è ch’essa non ne fu sorpresa, non s’avvide neppure della novità. Essa vive nella sua grande calma e trova naturale ch’io m’occupi di lei meno che in passato, ma questa nostra attuale inerzia non diminuisce il nostro legame ch’è stato annodato con carezze e parole affettuose. Queste carezze e parole affettuose non hanno bisogno di essere ripetute per continuare, per esistere in qualche posto, un legame fra noi sempre vivo e sempre ugualmente intimo. Quando un giorno, per calmare la mia coscienza, le misi due dita sotto al mento e la guardai lungamente negli occhi fedeli, essa con abbandono s’accostò a me e mi porse le labbra: «Sei rimasto sempre affettuoso tu». Ciò mi sorprese un poco al momento. Poi guardando con attenzione nel passato, m’avvidi infatti che io di affetto non avevo mai mancato in modo da negare l’amore antico che le avevo portato. L’avevo anche abbracciata un po’ distrattamente ogni sera prima di chiudere gli occhi al sonno.
Fu alquanto difficile trovare la donna che cercavo. In casa non c’era alcuna che s’adattasse a tale ufficio tanto più ch’io ero alieno dall’insudiciare la mia casa. L’avrei fatto data la necessità in cui mi trovavo di truffare madre natura in modo che non credesse ancora giunto il momento di mandarmi la malattia finale, e la grande, enorme difficoltà di trovare fuori di casa quello che faceva al caso mio, per un vecchio occupato con l’economia politica, ma proprio non c’era il verso. La più bella donna in casa mia era proprio Augusta. C’era una fanciullina di quattordici anni che Augusta impiegava per certi servizii. Compresi che se mi fossi accostato a quella, madre natura non m’avrebbe creduto e m’avrebbe eliminato rapidamente con quel fulmine che sta anch’esso sempre a sua disposizione.
È inutile raccontare come io abbia trovata Felicita. Io, per amore all’igiene, andavo ogni giorno a rifornirmi di sigarette molto al di là di piazza Unità ciò che implicava l’obbligo di una passeggiata di oltre mezz’ora. La venditrice era una vecchia donna ma la proprietaria dell’appalto e che vi passava varie ore al giorno per sorvegliare era propria Felicita, una ragazza di circa ventiquattr’anni. Dapprima credetti che l’appalto ella lo avesse ereditato; molto più tardi seppi che l’aveva proprio comperato coi proprii denari. Là la conobbi. Fummo presto d’accordo. Mi piaceva. Era una biondina che si vestiva di molti colori, stoffe che non mi parvero di gran prezzo, ma sempre nuove e molto vistose. Era superba della propria bellezza fatta di una testina piccola gonfiata da capelli tagliati corti ma ricciuti intensamente e una figurina graziosa molto eretta come se contenesse un piuolo e si tenesse un po’ pendente per indietro. Intravvidi subito il suo gusto per i colori varii. A casa questo gusto si rivelava intero. La casa talvolta non era ben riscaldata ed una volta registrai i suoi colori: Un fazzoletto rosso in testa legato col gusto delle nostre contadine, un fazzoletto di broccato giallo sulle spalle, un grembiule trapunto in rosso giallo e verde sulla gonna azzurra e un paio di pantofole trapunte di lana di varii colori. Una vera figurina orientale, mentre la faccina pallida era proprio dei nostri paesi con quegli occhi che guardavano cose e persone attentamente per poterne trarre tutto il vantaggio. Un mensile fu subito stabilito e per dire il vero tanto vistoso ch’io con tristezza lo confrontai con quelli tanto più tenui prebellici. E la cara Felicita già al 20 del mese cominciava a parlare dello stipendio che andava a scadere, ciò che turbava una buona parte del mese. Lei fu sincera, trasparente. Io lo fui meno ed essa mai seppe ch’io ero venuto a lei dopo di aver studiato dei testi di medicina.
Lo dimenticai presto anch’io. Devo dire che a quest’ora rimpiango quella casa tutta rustica meno una stanza messa con buon gusto proprio col lusso corrispondente a quello ch’io pagavo, dai colori molto serii e povera di luce in cui Felicita appariva come un fiore variopinto. C’era un fratello di Felicita che abitava nella stessa casa: Un uomo molto serio buon operaio elettrotecnico che si guadagnava una giornata abbastanza lauta. Aveva l’apparenza macilenta ma non era perciò che non s’era sposato, ma per economia come fu facile intendere. Io parlai con lui ogni qualvolta Felicita lo chiamava a rivedere le sicurezze della luce della nostra camera. Scopersi che fratello e sorella erano consociati a farsi al più presto possibile una certa sostanza. Felicita conduceva una vita molto seria fra l’appalto e la casa e Gastone fra l’officina e la casa. Felicita doveva guadagnare molto di più di Gastone ma ciò non importava visto che per lei – come lo seppi più tardi – l’ausilio di quel fratello le sembrava necessario. Era stato lui che aveva organizzato quell’affare dell’appalto che si dimostrò quale un buon impiego di denaro. Egli era tanto convinto di condurre la vita dell’uomo giusto che aveva degli accenti di disprezzo per tutti quegli operai che spendevano tutto quello che guadagnavano senza pensare al domani.
Insomma si stava abbastanza bene insieme. La stanza, così seria, tenuta tanto accuratamente, ricordava un po’ l’ambulanza del medico. Soltanto che Felicita era una medicina un po’ aspretta che bisognava ingoiare senza dar tempo agli organi del palato di gustarla troppo a lungo. Subito da bel principio, anzi prima di fare quel contratto e per incorarmi a farlo, aderendo a me, essa mi disse: «Ti assicuro che non mi fai schifo». Era abbastanza dolce perché detto con grande dolcezza, ma mi stupì. Io veramente non ci avevo mai pensato di non far schifo. Anzi avevo creduto d’esser ritornato all’amore, dal quale da lungo tempo m’ero astenuto per una falsa interpretazione delle leggi dell’igiene, per concedermi, donarmi a chi m’avesse desiderato. Questa sarebbe stata la vera pratica igienica cui tendevo e che altrimenti sarebbe stata incompleta e poco efficace. Ma, ad onta dei denari che pagavo per la cura, non osai di spiegare a Felicita come io la volessi. Ed essa molto spesso abbandonandosi a me la guastava con piena ingenuità: «Curioso! Non mi fai schifo». Un giorno con la brutalità di cui io sono capace in certe circostanze, le mormorai dolcemente all’orecchio: «Curioso! Neppure tu non fai schifo a me». Ciò la fece ridere tanto che la cura fu interrotta.
Eppure io talvolta oso vantarmi con me stesso, per rilevarmi, sentirmi più sicuro, più degno, più alto, dimenticare di aver dedicato una parte della mia vita allo sforzo di non fare schifo, che Felicita, in qualche breve istante della nostra lunga relazione, pur m’abbia amato. E quando cerco una sua sincera espressione di affetto, non la trovo né nella dolcezza sempre immutabile con cui essa m’accoglieva ogni volta, né nella sua cura materna con cui mi proteggeva dai giri d’aria, né, una volta, la sua sollecitudine, di coprirmi con un soprabito del fratello, e prestarmi un ombrello perché mentre stavamo insieme, fuori era scoppiato un temporale, ma ricordo un balbettio sincero: «Come mi fai schifo! Come mi fai schifo!».
Un giorno in cui come al solito parlavo di medicina con Carlo, egli mi disse: «A te occorrerebbe una fanciulla affetta di gerontomania». Chissà? Non lo confessai a Carlo ma forse io la fanciulla l’avevo già trovata una volta eppoi perduta. Solamente non credo che Felicita sia stata una sincera gerontomane. Mi prendeva troppi denari perché si possa credere che proprio m’amasse come sono.
Fu certo la donna più costosa ch’io avessi conosciuta in tutta la mia vita. Studiava con serenità, con quei suoi begli occhi sereni, spesso socchiusi per scrutare meglio, fino a che punto io mi sarei lasciato saccheggiare. Dapprima e per lungo tempo s’accontentò esattamente del mensile perché io, non ancora reso suo dal bisogno dell’abitudine, accennavo a rifiutarmi a spese maggiori. Tentò più volte di mettermi la mano in tasca e la ritrasse per non esporsi al rischio di perdermi. Ma poi, una volta le riuscì. Ebbe da me il prezzo di una pelliccia abbastanza costosa che poi mai vidi. Un’altra volta si fece pagare tutto un vestito, un modello di Parigi e me lo fece poi vedere. Ma, per cieco ch’io fossi, i suoi vestiti variopinti non si dimenticavano, e scopersi di averle già veduto indosso quel vestito. Era una donna economa e simulava il capriccio solo perché pensava che un uomo intende più facilmente il capriccio che l’avarizia di una donna. Ed ecco come contro il mio volere la relazione ebbe fine.
Io avevo la facoltà di andare da lei due volte alla settimana ad ore precise. Ora avvenne che un martedì dopo di essermi avviato alla sua casa a mezza strada scopersi che sarei stato meglio solo. Ritornai nel mio studio e serenamente mi dedicai sul grammofono alla IX sinfonia di Beethoven.
Poi il mercoledì non avrei sentito tanto forte il bisogno di Felicita ma fu proprio la mia avarizia che a lei mi spinse. Pagavo un forte mensile e in certo modo non approfittando dei miei diritti finivo col pagare troppo. Bisogna poi ricordare che quando io mi prendo una cura sono molto coscienzioso nell’applicarla con tutta l’esattezza più scientifica. Solo così alla fine si può giudicare se la cura è buona o cattiva.
Con la rapidità che le mie gambe mi concedono fui in quella ch’io credevo la nostra stanza. Per il momento apparteneva ad altri. Il grosso Misceli, un uomo di circa la mia età sedeva su un seggiolone in un cantuccio, mentre Felicita era comodamente abbandonata sul sofà e intenta a gustare una grossa sigaretta finissima, di quelle che nel suo appalto non si trovavano. In fondo era esattamente la posizione in cui ci trovavamo Felicita ed io quando eravamo lasciati soli, con la differenza che mentre il Misceli non fumava io m’associavo a Felicita già fumando.
«Ella desidera» domandò Felicita in tono gelido e guardandosi attentamente le unghie della mano in cui teneva la sigaretta.
Io non trovavo alcuna parola da dirle. Mi fu resa più facile la parola dal fatto che, a dire la verità, io non sentii alcun risentimento per il Misceli. Il grosso uomo, vecchio come me, in apparenza molto più vecchio perché imbarazzato dal suo grande peso, mi guardava esitante oltre gli occhiali lucenti appoggiati alla punta del naso. Io sento sempre gli altri vecchi come più vecchi di me.
«Oh, Misceli» dissi deciso ben risoluto di non fare delle scene, «tanto tempo che non ci vediamo». E gli porsi la mano in cui egli mise la grossa sua che lasciò molto inerte. Non fiatò ancora! Davvero si dimostrava più vecchio di me.
A quell’ora con l’oggettività ch’è propria dell’uomo assennato io avevo inteso perfettamente che la mia posizione era identica a quella del Misceli. Mi parve che perciò non ci fosse posto a risentimento. In fondo non era altro che un casuale scontro su un marciapiedi. Si va oltre per quanto possa dolere la parte eventualmente lesa mormorando una parola di scusa.
Per questo pensiero il gentiluomo ch’io sempre fui, si ricostituì intero in me. Mi parve fosse il mio dovere di rendere più facile anche la posizione di Felicita. E le dissi: «Senta, signorina, a me occorrerebbe un centinaio di scatoline di sigarette sport, ma ben scelte, perché ho da fare un dono. Soffici, mi raccomando. L’appalto è un po’ lontano e mi son permesso di salire per un istante».
Felicita cessò dal guardarsi le unghie e fu molto gentile. Si alzò anche e volle accompagnarmi alla porta. A bassa voce, con accento intenso di rimprovero arrivò a dirmi: «Perché non sei venuto ieri?». Eppoi, subito: «E perché sei venuto oggi?».
Mi offese. Era disgustoso di vedermi limitato a giorni fissi e per quel prezzo. Mi procurai subito il sollievo di lasciar scoppiare il mio rancore: «Son venuto qui solo per avvisarti che io non ne voglio più sapere di te e che non ci vedremo più!».
Essa mi guardò sorpresa e per vedermi meglio s’allontanò da me pendendo per un momento ancora più fortemente per indietro. A dire il vero un atteggiamento strano, ma che le dava una certa grazia di persona sicura che sa conservare l’equilibrio più difficile.
«Come vuoi» disse stringendosi nelle spalle. Poi, per essere sicura di avermi inteso bene, al momento di aprire la porta, mi domandò: «Dunque non ci vediamo più?». E mi guardò scrutando la mia faccia.
«Certo, non ci vediamo più» dissi io con qualche stizza. M’accingevo a scendere le scale quando rumorosamente si avvicinò alla porta il grosso Misceli urlando: «Aspetta, aspetta, vengo anch’io con te. Ho già detto anch’io alla signorina quante sigarette sport m’occorrono. Cento. Come a te». Scendemmo insieme le scale mentre Felicita dopo una lunga esitazione di cui mi compiacqui rinchiuse la sua porta.
Scendemmo la grande erta che conduceva a piazza Unità, lentamente, attenti di mettere i piedi a posto. Sull’erta egli, più pesante, appariva certamente più vecchio di me. Ci fu anzi un momento in cui incespicò e minacciava di cadere, ed io prontamente lo soccorsi. Non mi ringraziò. Era un po’ affannato ed il travaglio su quell’erta non era ancora finito. Perciò, solo perciò non parlava. Tant’è vero che quando giungemmo in pianura dietro al palazzo municipale, sciolse lo scilinguagnolo e parlò: «Io, le sport non le fumo. Ma è la sigaretta preferita dal nostro popolo. Ho un regalo da fare al mio falegname e allora volevo procurarmene di buone, di quelle che la signorina Felicita sa procurare». Adesso che parlava non sapeva più procedere che passo a passo. Si fermò del tutto per frugare una tasca dei suoi pantaloni. Ne trasse una scatola d’oro da sigarette; premette un bottoncino e la scatola si spalancò. «Ne vuoi una?» domandò. «Sono denicotinizzate». Io accettai e mi fermai anch’io per accenderla. Egli era fermo solo per ritrovare il posto alla scatola nella sua saccoccia. Ed io pensai: “Poteva darmi un rivale che fosse più degno di me”. Infatti io mi muovevo meglio di lui tanto sull’erta che in pianura. In suo confronto io ero addirittura un ragazzo. Fumava anche delle sigarette denicotinizzate prive di alcun sapore. Come ero più virile io che avevo sempre tentato di non fumare ma alla vigliaccheria delle sigarette denicotinizzate non ci avevo pensato mai.
Come Dio volle arrivammo alla porta del Tergesteo ove bisognava dividersi. Il Misceli parlava oramai di tutt’altre cose: Affari di Borsa in cui egli era versatissimo. Ma mi pareva accaldato e anche un po’ assorto. Mi pareva insomma ch’egli parlasse ma non ascoltasse se stesso. Era come me che non l’ascoltavo affatto e invece lo guardavo tentando d’intendere proprio quello ch’egli non diceva.
E non volli staccarmi da lui senza aver tentato di essere meglio informato su quello ch’egli pensava. E a questo scopo cominciai col rivelare intero me stesso. Scoppiai cioè: «Quella Felicita è una donnaccia». Il Misceli mi diede uno spettacolo nuovo, quello del suo imbarazzo. La sua grossa mandibola inferiore aveva un movimento che ricordava quello dei ruminanti. Si preparava a parlare movendo intanto quell’organo prima di sapere quello che avrebbe detto?
Poi disse: «A me non pare. Ha delle ottime sport». Voleva continuare la stupida commedia all’infinito. Io m’arrabbiai: «Ma insomma tu ritornerai ancora dalla signorina Felicita?».
Un altro momento d’esitazione: La mandibola sua si sporse, viaggiò a sinistra, e ritornò a destra prima di adagiarsi al suo posto giusto. Poi disse e per la prima volta tradì un grande desiderio di ridere: «Certo, ritornerò a lei non appena mi occorreranno delle altre sport».
Risi anch’io. Ma volli delle altre spiegazioni: «Perché allora la abbandonasti oggi?».
Egli esitò e vidi che nei suoi occhi foschi che s’affissavano verso il fondo della contrada si manifestava una grande tristezza: «Ho dei pregiudizi io. Quando vengo interrotto in qualche cosa credo subito di ravvisare il dito della provvidenza e abbandono tutto. Una volta ero avviato a recarmi a Berlino per un affare importante e m’arrestai a Sesanna ove il treno per non so che causa fu impedito di procedere per varie ore. Non credo che le cose di questo mondo vadano forzate… specialmente alla nostra età».
Non mi bastò e gli chiesi: «Non ti fece nulla di vedere che anch’io andavo a prendere le sport dalla signorina Felicita?».
Egli rispose subito deciso in modo che la sua mandibola non ebbe il tempo di roteare: «E che vuoi che m’importi? Geloso io? Mai più! Siamo vecchi, noi due. Siamo vecchi! Talvolta possiamo concederci di fare all’amore. Ma gelosi non dobbiamo essere perché facilmente incorriamo nel ridicolo. Gelosi mai! Se ascolti me, non farti scorgere geloso perché si riderebbe di te».
Le parole suonavano abbastanza bonarie, scritte come sono su questa carta, ma il tono era piuttosto forte pregno d’ira e di disprezzo. Arrossato nel grosso volto egli s’era accostato a me e mi misurava più piccolo di me guardando in alto come se avesse cercato di scoprire sul mio corpo il punto più vulnerabile da colpire. Perché ce l’aveva con me nello stesso momento in cui si dichiarava non geloso? Che altro gli avevo fatto? Può essere egli l’avesse con me perché aveva arrestato il suo treno a Sesanna quando egli s’apprestava di arrivare a Berlino.
Neppure io ero geloso. Cioè avrei voluto sapere quanto egli pagasse mensilmente a Felicita. Mi pareva che se avessi saputo che – come a me pareva giusto – egli avesse pagato più di me, io mi sarei dichiarato contento.
Ma non ebbi il tempo neppure d’indagare. Tutt’ad un tratto il Misceli si fece più mite e s’appellò alla mia discrezione. La sua mitezza si convertì in minaccia quando ricordò ch’eravamo uno in mano dell’altro. Lo rassicurai: Ero sposato anch’io e sapevo quale importanza poteva avere nel nostro caso una parola imprudente.
«Oh!» fece lui con un gesto rassicurante «non è per mia moglie ch’io ti raccomando la discrezione. Mia moglie di certe cose non si occupa da lunghi anni. Ma so che anche tu sei in cura del dottor Raulli. Ora egli minacciò di abbandonarmi se non mi tenevo alle sue prescrizioni, se bevevo un solo bicchiere di vino, se fumavo più di dieci sigarette e quelle denicotinizzate al giorno e non m’astenevo… da tutto il resto. Egli dice che il corpo di un uomo della nostra età è un corpo che sta in equilibrio solo perché non sa risolvere da quale parte cadere. Perciò non bisogna accennargli quella parte perché allora la sua decisione sarebbe facile». Continuò commiserandosi: «In fondo è facile prescrivere ad un altro: Non fare questo, né quello, né quell’altro. Si potrebbe anche dirgli che piuttosto che vivere così si può rassegnarsi a vivere qualche mese di meno».
Restò ancora per qualche istante con me e lo impiegò per informarsi della mia salute. Gli dissi ch’ero arrivato una volta a 240 millimetri di pressione ciò che gli piacque molto perché egli non aveva raggiunto che i 220. Con un piede sullo scalino che conduce al Tergesteo mi fece un saluto amichevole e mi disse: «Acqua in bocca, mi raccomando».
Quella bella figura retorica del Raulli del corpo del vecchio che resta in piedi perché non sa da che parte cadere, m’ossessionò per qualche giorno. Certo il vecchio dottore, quando parlava di «parte» voleva significare organo. E quell’equilibrio aveva anch’esso la sua significazione. Il Raulli doveva sapere quello che diceva. Da noi vecchi con la designazione di salute deve significarsi un indebolimento progressivo e contemporaneo di tutti gli organi. Guai se uno di essi resta in arretrato cioè troppo giovanile. Io mi figuro che allora la collaborazione può convertirsi in lotta e che gli organi deboli possono essere trattati a pugni, si può immaginare con quale magnifico risultato per l’economia generale. L’intervento del Misceli poteva perciò essere stato voluto dalla provvidenza che tutelava la mia vita e m’aveva persino mandato a dire col mezzo di quella bocca dalla mandibola vagante come io avessi da comportarmi.
E ritornai pensieroso al mio grammofono. Nella nona sinfonia ritrovai gli organi in collaborazione e in lotta. In collaborazione nei primi tempi, specie nello scherzo ove persino ai timpani è concesso di sintetizzare con due note quello che intorno ad essi tutti mormorano. La gioia dell’ultimo tempo mi parve ribellione. Rude, di una forza che è violenza con lievi, brevi rimpianti ed esitazioni. Non per nulla è intervenuta nell’ultimo tempo la voce umana, il suono meno ragionevole in tutta la natura. È vero che altre volte io avevo interpretato altrimenti quella sinfonia come la più intensa rappresentazione di accordo tra le forze più divergenti nelle quali infine viene accolta e fusa anche la voce umana. Ma quel giorno la sinfonia eseguita dagli stessi dischi apparve come dissi.
«Addio, Felicita» mormorai quando la musica fu morta. Non bisognava pensarci più. Non valeva tanto da rischiare per lei il crollo improvviso. C’erano tante teorie mediche a questo mondo che era difficile di farsene dirigere. Quei poltroni di medici avevano contribuito solo a rendere più difficile la vita. Le cose più semplici sono troppo complicate. Astenersi dalle bevande alcooliche è una prescrizione dalla verità evidente. Ma d’altronde si sa che talvolta l’alcool ha delle proprietà curative. Dovrò poi attendere l’intervento del medico per concedermi il conforto di tale potente medicamento? Non v’è dubbio che la morte è talvolta l’opera di un capriccio improvviso e che potrebbe essere passeggero di un organo o della casuale coincidenza momentanea di varie deficienze. Sarebbe momentanea – voglio dire – se non è seguita dalla morte. Bisogna fare in modo che sia momentanea. Dunque l’intervento dev’essere pronto e magari precorrere il crampo per eccessiva attività o il collasso per inerzia. A che aspettare il medico che viene e corre ad annotare la visita? Io solo posso essere avvisato in tempo del bisogno d’intervento da un lieve malessere. Purtroppo i medici non hanno studiato quello che in tale caso possa soccorrere. Io perciò allora ingoio varie cose: Caccio giù un purgante con un sorso di vino eppoi mi studio. Può esserci bisogno di altro intervento: Un bicchiere di latte ma anche qualche goccia di digitale. Le minuscole quantità che furono consigliate da quell’eccelso uomo che fu il Hannemann. Quelle minuscole quantità la cui sola presenza basta a produrre le reazioni necessarie all’attivamento della vita come se un organo più che essere nutrito o eccitato ha bisogno di essere ricordato. Vedendo una goccia di calcio esclama: «Oh, guarda! L’avevo dimenticato. Il mio dovere è di lavorare».
Questa era la condanna di Felicita. Non si poteva dosarla.
Alla sera venne da me il fratello di Felicita. Vedendolo trasecolai dallo spavento tanto più che fu proprio Augusta che lo diresse fino al mio studio. Paventando quello ch’egli volesse dirmi fui ben contento che Augusta subito s’allontanò. Egli sciolse i nodi di un fazzoletto da cui trasse un pacco: Cento scatoline di sigarette sport. Le distribuì in cinque parti ciascuna da venti scatoline e fu perciò facile di verificarne la quantità. Mi fece poi vedere come ogni scatolina fosse molle al tatto. Erano state scelte una per una da una grande partita. Era sicuro che mi sarei trovato contento.
Io ero infatti contentone perché dopo di esser stato tanto spaventato mi sentivo rassicurato del tutto. Pagai subito le 160 lire che gli dovevo ed anzi lietamente lo ringraziai. Lietamente anche perché ero proprio pervaso dal desiderio di ridere. Curiosa donna quella Felicita che, abbandonata, non negligeva l’interesse del suo appalto.
Ma il pallido uomo, lungo, allampanato, dopo di aver ficcato in saccoccia le lire ricevute, non accennava ancora ad andarsene. Non pareva il fratello di Felicita. Io l’avevo già visto altre volte ma vestito meglio. Ora era privo di colletto e il suo vestito era lindo ma veramente sdruscito. Strano che sentisse anche il bisogno di avere un cappello speciale per il giorno di lavoro: Quello poi era veramente sudicio e sformato dal lungo uso.
Mi guardava intensamente ed esitava a parlare. Pareva che il suo sguardo un po’ fosco in cui la luce brillava fuori di posto m’invitasse a indovinare quello ch’egli doveva dirmi. Quando egli finalmente parlò il suo sguardo si fece anche più supplice, tanto supplice che finì col sembrarmi minaccioso. Già supplicare intensamente rasenta la minaccia. Io capisco benissimo che messe in balìa di certi contadini, le immagini dei Santi cui furono rivolte le preci, finiscano per punizione sotto al letto.
Finalmente disse con voce sicura: «Felicita dice che siamo al dieci del mese».
Guardai il calendario da cui io giornalmente strappo un foglio e dissi: «Ha proprio ragione. Siamo al dieci del mese. Non c’è dubbio».
«Ma allora» disse egli esitante «essa è creditrice per tutto il mese».
Un attimo prima ch’egli avesse parlato io avevo capito perché m’aveva indotto a guardare il calendario. Credo di aver arrossito nel momento in cui scoprivo che fra fratello e sorella tutto era chiaro, sincero, onesto in base a conti precisi. L’unica parola che mi diede sorpresa fu la domanda esplicita di pagare per il mese intero. Ero anche in dubbio se veramente io dovessi pagare qualche cosa. Nella mia relazione con Felicita non avevo tenuto i conti con tanta esattezza. Non avevo io pagato sempre in anticipazione e non era perciò saldata quella frazione di mese col pagamento già fatto? E rincasai un po’ a bocca aperta a guardare quegli occhi strani per intendere se fossero supplici o minacciosi. È proprio dell’uomo di grande e lunga esperienza come sono io di non sapere come ha da comportarsi perché sa che da una sua parola, da una sua azione, possono risultare le cose più imprevedute. Basta leggere la storia universale per sapere come cause ed effetti possono mettersi nelle relazioni più strane. Nella mia esitazione trassi intanto il portafoglio e anche contai il denaro assorto a non prendere per una carta da cento lire una da cinquecento. E quando ebbi contate le banconote gliele consegnai. Così tutto fu fatto mentre io credevo di movermi per guadagnare tempo. E pensai: “Intanto pago eppoi ci penserò”.
Ma il fratello di Felicita non ci pensò più tant’è vero che il suo occhio cessò di fissarmi e perdette ogni intensità. Mise i denari in altra tasca di quella in cui aveva cacciato le centosessanta lire. Teneva i conti e i denari separati. Mi salutò: «Buona sera, signore» e uscì. Ma subito ritornò perché aveva dimenticato su una sedia ove l’aveva posto un altro pacchetto simile a quello che aveva consegnato a me. Per scusarsi d’essere ritornato mi disse: «Sono altre cento scatoline di sport che devo portare ad un altro signore».
Certo erano per il povero Misceli che neppur lui poteva soffrire quelle sigarette. Io però fumai tutte quelle sigarette meno qualche scatolina che regalai al mio chauffeur, Fortunato. Quando ho pagato qualche cosa prima o poi finisco col consumarla. È una prova del senso d’economia ch’è in me. Ed ogni volta che avevo quel sapore di paglia in bocca ricordavo più vivamente Felicita e suo fratello. A forza di pensarci seppi ricordare con piena sicurezza ch’io infatti non avevo pagato i mensili che dovevo anticipatamente. Dopo di aver pensato d’essere stato truffato di molto fu un sollievo per me di scoprire che m’avevano fatto pagare solo per venti giorni in più.
Io credo poi ch’io sia ritornato ancora una volta da Felicita, prima che trascorressero i venti giorni per cui avevo pagato, solo per quel mio sullodato senso di economia che m’aveva fatto ingoiare anche le sport. Mi dissi: «Giacché ho pagato, voglio rischiare anche una volta – l’ultima – il pericolo di accennare al mio organismo da quale parte possa crollare. Per una volta! Non s’accorgerà della buona occasione».
La porta del quartiere s’aperse nel momento stesso in cui m’accingevo di suonare. Nell’oscurità vidi con sorpresa la bella faccina pallida chiusa come in una visiera nel cappellino rosso che le copriva la testa fino alle orecchie e alla nuca. Un riccio biondo, uno solo, sbucava dal cappello sulla fronte. Sapevo che circa a quell’ora essa soleva andare all’appalto a sorvegliare quella parte della sua gestione commerciale la più complicata. Ma avevo sperato d’indurla di ritardare di quel poco di tempo che a me occorreva.
Essa subito non mi ravvisò nell’oscurità. Fece in forma di domanda un nome che non era né il mio né quello del Misceli, ma che non sentii bene. Quando mi ravvisò mi porse la mano gentilmente senz’ombra di rancore e con qualche curiosità. Io trattenni la sua manina fredda in ambe le mie e mi feci aggressivo. Essa lasciò giacere inerte quella mano ma ritirò la testa. Mai il piuolo su cui essa era costruita s’era inclinato tanto indietro, tanto che mi sentii tentato di lasciar andare quella mano e afferrarla alla vita, non per altro scopo che di sostenerla.
E quella faccia lontana adornata da quel solo riccio mi guardava. O guardava proprio me? Non guardava proprio ad un problema ch’ella s’era imposto e che abbisognava di una soluzione pronta, subito, là su quelle scale?
«Adesso è impossibile» disse dopo un’esitazione lunga. Mi guardò ancora. Poi ogni esitazione scomparve da lei. La sua figurina restò nella sua posizione tanto pericolosa, immota, e la sua faccina restò pallida e seria sotto a quel riccio biondo, ma senza fretta proprio come se avesse agito in seguito a una risoluzione seria ritirò la sua manina.
«Sì! È impossibile» aggiunse. Si ripeteva per far credere che studiasse ancora se forse pur non ci fosse un mezzo per contentarmi, ma fuori di questa ripetizione non c’era in lei altro segno che veramente ancora studiasse e pensasse. Allora essa aveva già deciso, definitivamente.
E mi disse, poi: «Dovresti, se puoi, ritornare al primo del mese… vedrò… ci penserò».
È da poco, solo dacché ho steso questa storia dei miei amori con Felicita che mi sono fatto abbastanza oggettivo per giudicare me e lei con sufficiente giustizia. Io mi trovavo lì per asserire il mio diritto a quei pochi giorni che ancora mancavano al mio abbonamento. Essa, invece, mi comunicava che io con la mia rinunzia avevo perduto quel diritto. Io credo che se mi avesse proposto di pagare per iniziare subito un nuovo abbonamento, avrei sofferto meno. Sono sicuro, poi, che non sarei scappato. Io in quel momento ero avviato all’amore e proprio alla mia età si somiglia molto al coccodrillo in terra ferma di cui si dice che abbisogni di tanto tempo per mutare di direzione. Avrei pagato subito per il mese intero magari col proposito di farlo per l’ultima volta.
Invece così m’indignai. Non trovai parole; quasi non trovai l’aria per respirare. Dissi: «Uff» con la massima indignazione. Credetti di aver detto qualche cosa ed anzi restai per un istante fermo come se mi fossi atteso che a quel mio «uff», un grido che doveva ferire lei e dar sfogo al mio profondo sconforto, essa avrebbe risposto qualche cosa. Ma né lei, né io dissimo altro. Io mi accinsi a scendere le scale. Fatti pochi scalini mi fermai, e mi rivolsi a rivederla. Forse c’era ora su quella faccia pallida qualche segno che smentisse tanto duro egoismo, tanto freddo calcolo. Non ne vidi la faccia. Essa era tutt’intenta a cacciare la chiave nella toppa per chiudere il quartierino che doveva e restar vuoto per qualche ora. Io ancora una volta dissi: «Uff», ma non più tanto ad alta voce da essere sentito da lei. Lo dicevo a tutto il mondo, alla società, alle nostre istituzioni e a madre natura che avevano tutti permesso ch’io mi trovassi su quella scala e in quella posizione.
Fu il mio ultimo amore. Adesso che tutta l’avventura è andata a ordinarsi nella regola del passato, non lo ritengo più tanto indegno, perché Felicita con quei suoi capelli biondi, la faccia pallida, il nasino affilato, gli occhi misteriosi, la parola parca che non spesso rivelava quanto freddo fosse quel suo cuore, può essere rimpianta. Ma, dopo di lei, non ci fu posto ad altri amori. Essa m’aveva educato. Io, fino ad allora, quando il caso mi permetteva di soggiornare per oltre dieci minuti presso una donna, sentivo sorgermi dal cuore speranza e desiderio. Certamente avevo il desiderio di celare l’uno e l’altra ma ancora più forte c’era quello di aumentarli per sentire meglio la vita e la mia appartenenza ad essa. Per aumentarli non c’era altro modo che di vestirli di parole e rivelarli. Chissà quante volte si sarà riso di me? Alla carriera di vegliardo cui sono ora condannato, io fui educato da Felicita. Io appena ora so che in amore io non valgo altro che per quello che pago.
E la mia bruttezza m’è sempre presente. È di questa mattina che destandomi studiai in quale posizione avessi trovata la mia bocca al momento in cui apersi gli occhi. La mandibola inferiore pendeva da quella parte su cui ero giaciuto e sentii fuori di posto anche la lingua inerte e gonfia.
Pensai subito a Felicita cui tanto spesso penso con desiderio ed odio. In quel momento mormorai: «Ha ragione».
«Chi ha ragione?» domandò Augusta che stava vestendosi.
Ed io risposi subito: «Ha ragione un certo Misceli in cui m’imbattei e che mi disse che non si capisce perché si nasca, si viva e si divenga vecchi».
Così le avevo detto tutto senza compromettermi affatto.
E nessuno finora mai rimpiazzò Felicita. Cerco tuttavia di ingannare madre natura che mi sorveglia per sopprimermi non appena si fosse avvista ch’io non sono più atto alla riproduzione. Con dosatura sapiente proprio nelle quantità volute dall’Hannemann io prendo giornalmente un po’ di quella medicina. Guardo le donne che passano, accompagno il loro passo cercando di vedere in quelle loro gambe qualche cosa d’altro che un ordigno per camminare e risentire il desiderio di fermarle e accarezzarle. Anche qui la dosatura si fa anche più avara di quello che io e Hannemann vorremmo. Debbo cioè sorvegliare i miei occhi perché non rivelino che cosa ricerchino e così si capisce che tanto raramente la medicina serva. Si può fare a meno di farsi accarezzare da altri per arrivare a un intero sentimento ma non si può senza correre il pericolo di raffreddare il proprio animo, fingere un’indifferenza assoluta. E avendo scritto questo capisco meglio la mia avventura con la vecchia Dondi. Io la salutai per farle qualche cosa e sentire meglio la sua bellezza. È il destino dei vecchi di fare dei bei saluti.
Non bisogna credere che tali relazioni fuggitive e che sono fatte solo allo scopo di salvarsi da morte, non lascino delle tracce, non vadano ad adornare e turbare la vita proprio come la mia relazione con Carla o quella con Felicita. Talvolta – raramente – arrivano a lasciare un ricordo incancellabile per l’impressione forte avuta. Io ricordo una signorina seduta di faccia a me in tranvai. Ricordo essa mi lasciò. Arrivammo ad una certa intimità perché io le diedi un nome: Anfora. Non aveva una faccia molto bella ma degli occhi accesi, un po’ rotondi, che guardavano tutto con grande curiosità e astuzia un po’ infantile. Avrà forse avuto oltre ai venti anni ma io non mi sarei meravigliato se essa per ridere avesse dato di soppiatto uno strappo alle codine sottili di una bambina che le sedeva per caso accanto. Non so se per la sua rara forma o per quella che le era simulata dal suo vestito, il suo busto pur esile somigliava ad un’anfora elegante poggiata sul bacino. Ed io molto ammirai quel busto e pensai per truffare meglio madre natura che mi sorvegliava: “Certo, io non debbo ancora morire perché se questa bambina volesse io sarei tuttavia disposto di procreare”.
La mia faccia dovette prendere un aspetto curioso guardando quell’anfora. Ma escludo sia stato quello di un satiro perché pensavo alla morte. E invece altri mi vide in dosso il desiderio. Come m’accorsi poi la fanciulla che doveva appartenere a famiglia agiata era accompagnata da una vecchietta, fantesca che l’accompagnò quando essa uscì dal veicolo. E fu questa vecchia che passandomi accanto e guardandomi, mormorò: «Vecchio satiro». Mi dava del vecchio. Chiamava la morte. Io le dissi: «Vecchia imbecille». Ma essa s’allontanò senza rispondermi.