Parafrasi del canto XXIII del poema Orlando Furioso
1
Studisi ognun giovare altrui; che rade
volte il ben far senza il suo premio fia:
e se pur senza, almen non te ne accade
morte né danno né ignominia ria.
Chi nuoce altrui, tardi o per tempo cade
il debito a scontar, che non s’oblia.
Dice il proverbio, ch’a trovar si vanno
gli uomini spesso, e i monti fermi stanno.
2
Or vedi quel ch’a Pinabello avviene
per essersi portato iniquamente:
è giunto in somma alle dovute pene,
dovute e giuste alla sua ingiusta mente.
E Dio, che le più volte non sostiene
veder patire a torto uno innocente,
salvò la donna; e salverà ciascuno
che d’ogni fellonia viva digiuno.
3
Credette Pinabel questa donzella
già d’aver morta, e colà giù sepulta;
né la pensava mai veder, non ch’ella
gli avesse a tor degli error suoi la multa.
Né il ritrovarsi in mezzo le castella
del padre, in alcun util gli risulta.
Quivi Altaripa era tra monti fieri
vicina al tenitorio di Pontieri.
4
Tenea quell’Altaripa il vecchio conte
Anselmo, di ch’uscì questo malvagio,
che, per fuggir la man di Chiaramonte,
d’amici e di soccorso ebbe disagio.
La donna al traditore a piè d’un monte
tolse l’indegna vita a suo grande agio;
che d’altro aiuto quel non si provede,
che d’alti gridi e di chiamar mercede.
5
Morto ch’ella ebbe il falso cavalliero
che lei voluto avea già porre a morte,
volse tornare ove lasciò Ruggiero;
ma non lo consentì sua dura sorte,
che la fe’ traviar per un sentiero
che la portò dov’era spesso e forte,
dove più strano e più solingo il bosco,
lasciando il sol già il mondo all’aer fosco.
6
Né sappiendo ella ove potersi altrove
la notte riparar, si fermò quivi
sotto le frasche in su l’erbette nuove,
parte dormendo, fin che ‘l giorno arrivi,
parte mirando ora Saturno or Giove,
Venere e Marte e gli altri erranti divi;
ma sempre, o vegli o dorma, con la mente
contemplando Ruggier come presente.
7
Spesso di cor profondo ella sospira,
di pentimento e di dolor compunta,
ch’abbia in lei, più ch’amor, potuto l’ira.
– L’ira (dicea) m’ha dal mio amor disgiunta:
almen ci avessi io posta alcuna mira,
poi ch’avea pur la mala impresa assunta,
di saper ritornar donde io veniva;
che ben fui d’occhi e di memoria priva. –
8
Queste ed altre parole ella non tacque,
e molto più ne ragionò col core.
Il vento intanto di sospiri, e l’acque
di pianto facean pioggia di dolore.
Dopo una lunga aspettazion pur nacque
in oriente il disiato albore:
ed ella prese il suo destrier ch’intorno
giva pascendo, ed andò contra il giorno.
9
Né molto andò, che si trovò all’uscita
del bosco, ove pur dianzi era il palagio,
là dove molti dì l’avea schernita
con tanto error l’incantator malvagio.
Ritrovò quivi Astolfo, che fornita
la briglia all’ippogrifo avea a grande agio,
e stava in gran pensier di Rabicano,
per non sapere a chi lasciarlo in mano.
10
A caso si trovò che fuor di testa
l’elmo allor s’avea tratto il paladino;
sì che tosto ch’uscì de la foresta,
Bradamante conobbe il suo cugino.
Di lontan salutollo, e con gran festa
gli corse, e l’abbracciò poi più vicino;
e nominossi, ed alzò la visiera,
e chiaramente fe’ veder ch’ell’era.
11
Non potea Astolfo ritrovar persona
a chi il suo Rabican meglio lasciasse,
perché dovesse averne guardia buona
e renderglielo poi come tornasse,
de la figlia del duca di Dordona;
e parvegli che Dio gli la mandasse.
Vederla volentier sempre solea,
ma pel bisogno or più ch’egli n’avea.
12
Da poi che due o tre volte ritornati
fraternamente ad abbracciar si foro,
e si for l’uno a l’altro domandati
con molta affezion de l’esser loro,
Astolfo disse: – Ormai, se dei pennati
vo’ ‘l paese cercar, troppo dimoro: –
ed aprendo alla donna il suo pensiero,
veder le fece il volator destriero.
13
A lei non fu di molta maraviglia
veder spiegare a quel destrier le penne;
ch’altra volta, reggendogli la briglia
Atlante incantator, contra le venne;
e le fece doler gli occhi e le ciglia:
sì fisse dietro a quel volar le tenne
quel giorno, che da lei Ruggier lontano
portato fu per camin lungo e strano.
14
Astolfo disse a lei, che le volea
dar Rabican, che sì nel corso affretta,
che, se scoccando l’arco si movea,
si solea lasciar dietro la saetta;
e tutte l’arme ancor, quante n’avea,
che vuol che a Montalban gli le rimetta,
e gli le serbi fin al suo ritorno;
che non gli fanno or di bisogno intorno.
15
Volendosene andar per l’aria a volo,
aveasi a far quanto potea più lieve.
Tiensi la spada e ‘l corno, ancor che solo
bastargli il corno ad ogni risco deve.
Bradamante la lancia che ‘l figliuolo
portò di Galafrone, anco riceve;
la lancia che di quanti ne percuote
fa le selle restar subito vote.
16
Salito Astolfo sul destrier volante,
lo fa mover per l’aria lento lento;
indi lo caccia sì, che Bradamante
ogni vista ne perde in un momento.
Così si parte col pilota inante
il nochier che gli scogli teme e ‘l vento;
e poi che ‘l porto e i liti a dietro lassa,
spiega ogni vela e inanzi ai venti passa.
17
La donna, poi che fu partito il duca,
rimase in gran travaglio de la mente;
che non sa come a Montalban conduca
l’armatura e il destrier del suo parente;
però che ‘l cuor le cuoce e le manuca
l’ingorda voglia e il desiderio ardente
di riveder Ruggier, che, se non prima,
a Vallombrosa ritrovar lo stima.
18
Stando quivi suspesa, per ventura
si vede inanzi giungere un villano,
dal qual fa rassettar quella armatura,
come si puote, e por su Rabicano;
poi di menarsi dietro gli diè cura
i duo cavalli, un carco e l’altro a mano:
ella n’avea duo prima; ch’avea quello
sopra il qual levò l’altro a Pinabello.
19
Di Vallombrosa pensò far la strada,
che trovar quivi il suo Ruggier ha speme;
ma qual più breve o qual miglior vi vada,
poco discerne, e d’ire errando teme.
Il villan non avea de la contrada
pratica molta; ed erreranno insieme.
Pur andare a ventura ella si messe,
dove pensò che ‘l loco esser dovesse.
20
Di qua di là si volse, né persona
incontrò mai da domandar la via.
Si trovò uscir del bosco in su la nona
dove un castel poco lontan scoprìa,
il qual la cima a un monticel corona.
Lo mira, e Montalban le par che sia:
ed era certo Montalbano; e in quello
avea la matre ed alcun suo fratello.
21
Come la donna conosciuto ha il loco,
nel cor s’attrista, e più ch’i’ non so dire:
sarà scoperta, se si ferma un poco,
né più le sarà lecito a partire;
se non si parte, l’amoroso foco
l’arderà sì, che la farà morire:
non vedrà più Ruggier, né farà cosa
di quel ch’era ordinato a Vallombrosa.
22
Stette alquanto a pensar; poi si risolse
di voler dar a Montalban le spalle:
e verso la badia pur si rivolse,
che quindi ben sapea qual era il calle.
Ma sua fortuna, o buona o trista, volse
che prima ch’ella uscisse de la valle,
scontrasse Alardo, un de’ fratelli sui;
né tempo di celarsi ebbe da lui.
23
Veniva da partir gli alloggiamenti
per quel contado a cavallieri e a fanti;
ch’ad istanza di Carlo nuove genti
fatto avea de le terre circostanti.
I saluti e i fraterni abbracciamenti
con le grate accoglienze andaro inanti;
e poi, di molte cose a paro a paro
tra lor parlando, in Montalban tornaro.
24
Entrò la bella donna in Montalbano,
dove l’avea con lacrimosa guancia
Beatrice molto desiata invano,
e fattone cercar per tutta Francia.
Or quivi i baci e il giunger mano a mano
di matre e di fratelli estimò ciancia
verso gli avuti con Ruggier complessi,
ch’avrà ne l’alma eternamente impressi.
25
Non potendo ella andar, fece pensiero
ch’a Vallombrosa altri in suo nome andasse
immantinente ad avisar Ruggiero
de la cagion ch’andar lei non lasciasse;
e lui pregar (s’era pregar mestiero)
che quivi per suo amor si battezzasse,
e poi venisse a far quanto era detto,
sì che si desse al matrimonio effetto.
26
Pel medesimo messo fe’ disegno
di mandar a Ruggiero il suo cavallo,
che gli solea tanto esser caro: e degno
d’essergli caro era ben senza fallo;
che non s’avria trovato in tutto ‘l regno
dei Saracin, né sotto il signor Gallo,
più bel destrier di questo o più gagliardo,
eccetti Brigliador, soli, e Baiardo.
27
Ruggier, quel dì che troppo audace ascese
su l’ippogrifo, e verso il ciel levosse,
lasciò Frontino, e Bradamante il prese
(Frontino, che ‘l destrier così nomosse);
mandollo a Montalbano, e a buone spese
tener lo fece, e mai non cavalcosse,
se non per breve spazio e a picciol passo;
sì ch’era più che mai lucido e grasso.
28
Ogni sua donna tosto, ogni donzella
pon seco in opra, e con suttil lavoro
fa sopra seta candida e morella
tesser ricamo di finissimo oro;
e di quel cuopre ed orna briglia e sella
del buon destrier: poi sceglie una di loro
figlia di Callitrefia sua nutrice,
d’ogni secreto suo fida uditrice.
29
Quanto Ruggier l’era nel core impresso,
mille volte narrato avea a costei;
la beltà, la virtude, i modi d’esso
esaltato l’avea fin sopra i dei.
A sé chiamolla, e disse: – Miglior messo
a tal bisogno elegger non potrei;
che di te né più fido né più saggio
imbasciator, Ippalca mia, non aggio. –
30
Ippalca la donzella era nomata.
– Va, – le dice, e l’insegna ove de’ gire;
e pienamente poi l’ebbe informata
di quanto avesse al suo signore a dire;
e far la scusa se non era andata
al monaster: che non fu per mentire;
ma che Fortuna, che di noi potea
più che noi stessi, da imputar s’avea.
31
Montar la fece s’un ronzino, e in mano
la ricca briglia di Frontin le messe:
e se sì pazzo alcuno o sì villano
trovasse, che levar le lo volesse;
per fargli a una parola il cervel sano,
di chi fosse il destrier sol gli dicesse;
che non sapea sì ardito cavalliero,
che non tremasse al nome di Ruggiero.
32
Di molte cose l’ammonisce e molte,
che trattar con Ruggier abbia in sua vece;
le qual poi ch’ebbe Ippalca ben raccolte,
si pose in via, né più dimora fece.
Per strade e campi e selve oscure e folte
cavalcò de le miglia più di diece;
che non fu a darle noia chi venisse,
né a domandarla pur dove ne gisse.
33
A mezzo il giorno, nel calar d’un monte,
in una stretta e malagevol via
si venne ad incontrar con Rodomonte,
ch’armato un piccol nano e a piè seguia.
Il Moro alzò vêr lei 1’altiera fronte,
e bestemmiò l’eterna Ierarchia,
poi che sì bel destrier, sì bene ornato,
non avea in man d’un cavallier trovato.
34
Avea giurato che ‘l primo cavallo
torria per forza, che tra via incontrasse.
Or questo è stato il primo; e trovato hallo
più bello e più per lui, che mai trovasse:
ma torlo a una donzella gli par fallo;
e pur agogna averlo, e in dubbio stasse.
Lo mira, lo contempla, e dice spesso:
– Deh perché il suo signor non è con esso! –
35
– Deh ci fosse egli! (gli rispose Ippalca)
che ti faria cangiar forse pensiero.
Assai più di te val chi lo cavalca,
né lo pareggia al mondo altro guerriero. –
– Chi è (le disse il Moro) che sì calca
l’onore altrui? – Rispose ella: – Ruggiero. –
E quel suggiunse: – Adunque il destrier voglio,
poi ch’a Ruggier, sì gran campion, lo toglio.
36
Il qual, se sarà ver, come tu parli,
che sia sì forte, e più d’ogn’altro vaglia,
non che il destrier, ma la vettura darli
converrammi, e in suo albitrio fia la taglia.
Che Rodomonte io sono, hai da narrarli,
e che, se pur vorrà meco battaglia,
mi troverà; ch’ovunque io vada o stia,
mi fa sempre apparir la luce mia.
37
Dovunque io vo, sì gran vestigio resta,
che non lo lascia il fulmine maggiore. –
Così dicendo, avea tornate in testa
le redine dorate al corridore:
sopra gli salta; e lacrimosa e mesta
rimane Ippalca, e spinta dal dolore
minaccia Rodomonte e gli dice onta:
non l’ascolta egli, e su pel poggio monta.
38
Per quella via dove lo guida il nano
per trovar Mandricardo e Doralice,
gli viene Ippalca dietro di lontano,
e lo bestemmia sempre e maledice.
Ciò che di questo avvenne, altrove è piano.
Turpin, che tutta questa istoria dice,
fa qui digresso, e torna in quel paese
dove fu dianzi morto il Maganzese.
39
Dato avea a pena a quel loco le spalle
la figliuola d’Amon, ch’in fretta gìa,
che v’arrivò Zerbin per altro calle
con la fallace vecchia in compagnia:
e giacer vide il corpo ne la valle
del cavallier, che non sa già chi sia;
ma, come quel ch’era cortese e pio,
ebbe pietà del caso acerbo e rio.
40
Giaceva Pinabello in terra spento,
versando il sangue per tante ferite,
ch’esser doveano assai, se più di cento
spade in sua morte si fossero unite.
Il cavallier di Scozia non fu lento
per l’orme che di fresco eran scolpite
a porsi in avventura, se potea
saper chi l’omicidio fatto avea.
41
Ed a Gabrina dice che l’aspette;
che senza indugio a lei farà ritorno.
Ella presso al cadavero si mette,
e fissamente vi pon gli occhi intorno;
perché, se cosa v’ha che le dilette,
non vuol ch’un morto invan più ne sia adorno,
come colei che fu, tra l’altre note,
quanto avara esser più femina puote.
42
Se di portarne il furto ascosamente
avesse avuto modo o alcuna speme,
la sopravesta fatta riccamente
gli avrebbe tolta, e le bell’arme insieme.
Ma quel che può celarsi agevolmente,
si piglia, e ‘l resto fin al cor le preme.
Fra l’altre spoglie un bel cinto levonne,
e se ne legò i fianchi infra due gonne.
43
Poco dopo arrivò Zerbin, ch’avea
seguito invan di Bradamante i passi,
perché trovò il sentier che si torcea
in molti rami ch’ivano alti e bassi:
e poco ormai del giorno rimanea,
né volea al buio star fra quelli sassi;
e per trovare albergo diè le spalle
con l’empia vecchia alla funesta valle.
44
Quindi presso a dua miglia ritrovaro
un gran castel che fu detto Altariva,
dove per star la notte si fermaro,
che già a gran volo inverso il ciel saliva.
Non vi ster molto, ch’un lamento amaro
l’orecchie d’ogni parte lor feriva;
e veggon lacrimar da tutti gli occhi,
come la cosa a tutto il popul tocchi.
45
Zerbino dimandonne, e gli fu detto
che venut’era al cont’Anselmo aviso,
che fra duo monti in un sentiero istretto
giacea il suo figlio Pinabello ucciso.
Zerbin, per non ne dar di sé sospetto,
di ciò si finge nuovo, e abbassa il viso;
ma pensa ben, che senza dubbio sia
quel ch’egli trovò morto in su la via.
46
Dopo non molto la bara funèbre
giunse, a splendor di torchi e di facelle,
là dove fece le strida più crebre
con un batter di man gire alle stelle,
e con più vena fuor de le palpèbre
le lacrime inundar per le mascelle:
ma più de l’altre nubilose ed atre
era la faccia del misero patre.
47
Mentre apparecchio si facea solenne
di grandi esequie e di funèbri pompe,
secondo il modo ed ordine che tenne
l’usanza antiqua e ch’ogni età corrompe;
da parte del signore un bando venne,
che tosto il popular strepito rompe,
e promette gran premio a chi dia aviso
chi stato sia che gli abbia il figlio ucciso.
48
Di voce in voce e d’una in altra orecchia
il grido e ‘l bando per la terra scorse,
fin che l’udì la scelerata vecchia
che di rabbia avanzò le tigri e l’orse;
e quindi alla ruina s’apparecchia
di Zerbino, o per l’odio che gli ha forse,
o per vantarsi pur, che sola priva
d’umanitade in uman corpo viva;
49
o fosse pur per guadagnarsi il premio:
a ritrovar n’andò quel signor mesto;
e dopo un verisimil suo proemio,
gli disse che Zerbin fatto avea questo:
e quel bel cinto si levò di gremio,
che ‘l miser padre a riconoscer presto,
appresso il testimonio e tristo uffizio
de l’empia vecchia, ebbe per chiaro indizio.
50
E lacrimando al ciel leva le mani,
che ‘l figliuol non sarà senza vendetta.
Fa circundar l’albergo ai terrazzani;
che tutto ‘l popul s’è levato in fretta.
Zerbin che gli nimici aver lontani
si crede, e questa ingiuria non aspetta,
dal conte Anselmo, che si chiama offeso
tanto da lui, nel primo sonno è preso;
51
e quella notte in tenebrosa parte
incatenato, e in gravi ceppi messo.
Il sole ancor non ha le luci sparte,
che l’ingiusto supplicio è già commesso;
che nel loco medesimo si squarte,
dove fu il mal c’hanno imputato ad esso.
Altra esamina in ciò non si facea:
bastava che ‘l signor così credea.
52
Poi che l’altro matin la bella Aurora
l’aer seren fe’ bianco e rosso e giallo,
tutto ‘l popul gridando: – Mora, mora, –
vien per punir Zerbin del non suo fallo.
Lo sciocco vulgo l’accompagna fuora,
senz’ordine, chi a piede e chi a cavallo,
e ‘l cavallier di Scozia a capo chino
ne vien legato in s’un piccol ronzino.
53
Ma Dio, che spesso gl’innocenti aiuta,
né lascia mai ch’in sua bontà si fida,
tal difesa gli avea già proveduta,
che non v’è dubbio più ch’oggi s’uccida.
Quivi Orlando arrivò, la cui venuta
alla via del suo scampo gli fu guida.
Orlando giù nel pian vide la gente
che trae a morte il cavallier dolente.
54
Era con lui quella fanciulla, quella
che ritrovò ne la selvaggia grotta,
del re galego la figlia lssabella,
in poter già de’ malandrin condotta,
poi che lasciato avea ne la procella
del truculento mar la nave rotta:
quella che più vicino al core avea
questo Zerbin, che l’alma onde vivea.
55
Orlando se l’avea fatta compagna,
poi che de la caverna la riscosse.
Quando costei li vide alla campagna,
domandò Orlando, chi la turba fosse.
– Non so, – diss’egli; e poi su la montagna
lasciolla, e verso il pian ratto si mosse.
Guardò Zerbino, ed alla vista prima
lo giudicò baron di molta stima.
56
E fattosegli appresso, domandollo
per che cagione e dove il menin preso.
Levò il dolente cavalliero il collo,
e meglio avendo il paladino inteso,
rispose il vero; e così ben narrollo,
che meritò dal conte esser difeso.
Bene avea il conte alle parole scorto
ch’era innocente, e che moriva a torto.
57
E poi che ‘ntese che commesso questo
era dal conte Anselmo d’Altariva,
fu certo ch’era torto manifesto;
ch’altro da quel fellon mai non deriva.
Ed oltre a ciò, l’uno era all’altro infesto
per l’antiquissimo odio che bolliva
tra il sangue di Maganza e di Chiarmonte;
e tra lor eran morti e danni ed onte.
58
– Slegate il cavallier (gridò), canaglia,
(il conte a’ masnadieri), o ch’io v’uccido. –
– Chi è costui che sì gran colpi taglia?
(rispose un che parer volle il più fido).
Se di cera noi fussimo o di paglia,
e di fuoco egli, assai fôra quel grido. –
E venne contra il paladin di Francia:
Orlando contra lui chinò la lancia.
59
La lucente armatura il Maganzese,
che levata la notte avea a Zerbino,
e postasela indosso, non difese
contro l’aspro incontrar del paladino.
Sopra la destra guancia il ferro prese:
l’elmo non passò già, perch’era fino;
ma tanto fu de la percossa il crollo,
che la vita gli tolse e roppe il collo.
60
Tutto in un corso, senza tor di resta
la lancia, passò un altro in mezzo ‘l petto:
quivi lasciolla, e la mano ebbe presta
a Durindana; e nel drappel più stretto
a chi fece due parti de la testa,
a chi levò dal busto il capo netto;
forò la gola a molti; e in un momento
n’uccise e messe in rotta più di cento.
61
Più del terzo n’ha morto, e ‘l resto caccia
e taglia e fende e fiere e fora e tronca.
Chi lo scudo, e chi l’elmo che lo ‘mpaccia,
e chi lascia lo spiedo e chi la ronca;
chi al lungo, chi al traverso il camin spaccia;
altri s’appiatta in bosco, altri in spelonca.
Orlando, di pietà questo dì privo,
a suo poter non vuol lasciarne un vivo.
62
Di cento venti (che Turpin sottrasse
il conto), ottanta ne periro almeno.
Orlando finalmente si ritrasse
dove a Zerbin tremava il cor nel seno.
S’al ritornar d’Orlando s’allegrasse,
non si potria contare in versi a pieno.
Se gli saria per onorar prostrato;
ma si trovò sopra il ronzin legato.
63
Mentre ch’Orlando, poi che lo disciolse,
l’aiutava a ripor l’arme sue intorno,
ch’al capitan de la sbirraglia tolse,
che per suo mal se n’era fatto adorno;
Zerbino gli occhi ad Issabella volse,
che sopra il colle avea fatto soggiorno,
e poi che de la pugna vide il fine,
portò le sue bellezze più vicine.
64
Quando apparir Zerbin si vide appresso
la donna che da lui fu amata tanto,
la bella donna che per falso messo
credea sommersa, e n’ha più volte pianto;
com’un ghiaccio nel petto gli sia messo,
sente dentro aggelarsi, e triema alquanto:
ma tosto il freddo manca, ed in quel loco
tutto s’avampa d’amoroso fuoco.
65
Di non tosto abbracciarla lo ritiene
la riverenza del signor d’Anglante;
perché si pensa, e senza dubbio tiene
ch’Orlando sia de la donzella amante.
Così cadendo va di pene in pene,
e poco dura il gaudio ch’ebbe inante:
il vederla d’altrui peggio sopporta,
che non fe’ quando udì ch’ella era morta.
66
E molto più gli duol che sia in podesta
del cavalliero a cui cotanto debbe;
perché volerla a lui levar né onesta
né forse impresa facile sarebbe.
Nessuno altro da sé lassar con questa
preda partir senza romor vorrebbe:
ma verso il conte il suo debito chiede
che se lo lasci por sul collo il piede.
67
Giunsero taciturni ad una fonte,
dove smontaro e fer qualche dimora.
Trassesi l’elmo il travagliato conte,
ed a Zerbin lo fece trarre ancora.
Vede la donna il suo amatore in fronte,
e di subito gaudio si scolora;
poi torna come fiore umido suole
dopo gran pioggia all’apparir del sole.
68
E senza indugio e senza altro rispetto
corre al suo caro amante, e il collo abbraccia;
e non può trar parola fuor del petto,
ma di lacrime il sen bagna e la faccia.
Orlando attento all’amoroso affetto,
senza che più chiarezza se gli faccia,
vide a tutti gl’indizi manifesto
ch’altri esser, che Zerbin, non potea questo.
69
Come la voce aver poté Issabella,
non bene asciutta ancor l’umida guancia,
sol de la molta cortesia favella,
che l’avea usata il paladin di Francia.
Zerbino, che tenea questa donzella
con la sua vita pare a una bilancia,
si getta a’ piè del conte, e quello adora
come a chi gli ha due vite date a un’ora.
70
Molti ringraziamenti e molte offerte
erano per seguir tra i cavallieri,
se non udian sonar le vie coperte
dagli arbori di frondi oscuri e neri.
Presti alle teste lor, ch’eran scoperte,
posero gli elmi, e presero i destrieri:
ed ecco un cavalliero e una donzella
lor sopravien, ch’a pena erano in sella.
71
Era questo guerrier quel Mandricardo
che dietro Orlando in fretta si condusse
per vendicar Alzirdo e Manilardo,
che ‘l paladin con gran valor percusse:
quantunque poi lo seguitò più tardo;
che Doralice in suo poter ridusse,
la quale avea con un troncon di cerro
tolta a cento guerrier carchi di ferro.
72
Non sapea il Saracin però, che questo,
ch’egli seguia, fosse il signor d’Anglante:
ben n’avea indizio e segno manifesto
ch’esser dovea gran cavalliero errante.
A lui mirò più ch’a Zerbino, e presto
gli andò con gli occhi dal capo alle piante;
e i dati contrasegni ritrovando,
disse: – Tu se’ colui ch’io vo cercando.
73
Sono omai dieci giorni (gli soggiunse)
che di cercar non lascio i tuo’ vestigi:
tanto la fama stimolommi e punse,
che di te venne al campo di Parigi,
quando a fatica un vivo sol vi giunse
di mille che mandasti ai regni stigi;
e la strage contò, che da te venne
sopra i Norizi e quei di Tremisenne.
74
Non fui, come lo seppi, a seguir lento,
e per vederti e per provarti appresso:
e perché m’informai del guernimento
c’hai sopra l’arme, io so che tu sei desso;
e se non l’avessi anco, e che fra cento
per celarti da me ti fossi messo,
il tuo fiero sembiante mi faria
chiaramente veder che tu quel sia. –
75
– Non si può (gli rispose Orlando) dire
che cavallier non sii d’alto valore;
però che sì magnanimo desire
non mi credo albergasse in umil core.
Se ‘l volermi veder ti fa venire,
vo’ che mi veggi dentro, come fuore:
mi leverò questo elmo da le tempie,
acciò ch’a punto il tuo desire adempie.
76
Ma poi che ben m’avrai veduto in faccia,
all’altro desiderio ancora attendi:
resta ch’alla cagion tu satisfaccia,
che fa che dietro questa via mi prendi;
che veggi se ‘l valor mio si confaccia
a quel sembiante fier che sì commendi. –
– Orsù (disse il pagano), al rimanente;
ch’al primo ho satisfatto interamente. –
77
Il conte tuttavia dal capo al piede
va cercando il pagan tutto con gli occhi:
mira ambi i fianchi, indi l’arcion; né vede
pender né qua né là mazze né stocchi.
Gli domanda di ch’arme si provede,
s’avvien che con la lancia in fallo tocchi.
Rispose quel: – Non ne pigliar tu cura:
così a molt’altri ho ancor fatto paura.
78
Ho sacramento di non cinger spada,
fin ch’io non tolgo Durindana al conte;
e cercando lo vo per ogni strada,
acciò più d’una posta meco sconte.
Lo giurai (se d’intenderlo t’aggrada)
quando mi posi quest’elmo alla fronte,
il qual con tutte l’altr’arme ch’io porto,
era d’Ettòr, che già mill’anni è morto.
79
La spada sola manca alle buone arme:
come rubata fu, non ti so dire.
Or che la porti il paladino, parme;
e di qui vien ch’egli ha sì grande ardire.
Ben penso, se con lui posso accozzarme,
fargli il mal tolto ormai ristituire.
Cercolo ancor, che vendicar disio
il famoso Agrican genitor mio.
80
Orlando a tradimento gli diè morte:
ben so che non potea farlo altrimente. –
Il conte più non tacque, e gridò forte:
– E tu e qualunque il dice, se ne mente.
Ma quel che cerchi t’è venuto in sorte:
io sono Orlando, e uccisil giustamente;
e questa è quella spada che tu cerchi,
che tua sarà, se con virtù la merchi.
81
Quantunque sia debitamente mia,
tra noi per gentilezza si contenda:
né voglio in questa pugna ch’ella sia
più tua che mia; ma a un arbore s’appenda.
Levala tu liberamente via,
s’avvien che tu m’uccida o che mi prenda. –
Così dicendo, Durindana prese,
e ‘n mezzo il campo a un arbuscel l’appese.
82
Già l’un da l’altro è dipartito lunge,
quanto sarebbe un mezzo tratto d’arco:
già l’uno contra l’altro il destrier punge,
né de le lente redine gli è parco:
già l’uno e l’altro di gran colpo aggiunge
dove per l’elmo la veduta ha varco.
Parveno l’aste, al rompersi, di gielo;
e in mille schegge andar volando al cielo.
83
L’una e l’altra asta è forza che si spezzi;
che non voglion piegarsi i cavallieri,
i cavallier che tornano coi pezzi
che son restati appresso i calci interi.
Quelli, che sempre fur nel ferro avezzi,
or, come duo villan per sdegno fieri
nel partir acque o termini de prati,
fan crudel zuffa di duo pali armati.
84
Non stanno l’aste a quattro colpi salde,
e mancan nel furor di quella pugna.
Di qua e di là si fan l’ire più calde;
né da ferir lor resta altro che pugna.
Schiodano piastre, e straccian maglie e falde,
pur che la man, dove s’aggraffi, giugna.
Non desideri alcun, perché più vaglia,
martel più grave o più dura tanaglia.
85
Come può il Saracin ritrovar sesto
di finir con suo onore il fiero invito?
Pazzia sarebbe il perder tempo in questo,
che nuoce al feritor più ch’al ferito.
Andò alle strette l’uno e l’altro, e presto
il re pagano Orlando ebbe ghermito:
lo strigne al petto; e crede far le prove
che sopra Anteo fe’ già il figliol di Giove.
86
Lo piglia con molto impeto a traverso:
quando lo spinge, e quando a sé lo tira;
ed è ne la gran colera sì immerso,
ch’ove resti la briglia poco mira.
Sta in sé raccolto Orlando, e ne va verso
il suo vantaggio, e alla vittoria aspira:
gli pon la cauta man sopra le ciglia
del cavallo, e cader ne fa la briglia.
87
Il Saracino ogni poter vi mette,
che lo soffoghi, o de l’arcion lo svella:
negli urti il conte ha le ginocchia strette;
né in questa parte vuol piegar né in quella.
Per quel tirar che fa il pagan, costrette
le cingie son d’abandonar la sella.
Orlando è in terra, e a pena sel conosce:
ch’i piedi ha in staffa, e stringe ancor le cosce.
88
Con quel rumor ch’un sacco d’arme cade,
risuona il conte, come il campo tocca.
Il destrier c’ha la testa in libertade,
quello a chi tolto il freno era di bocca,
non più mirando i boschi che le strade,
con ruinoso corso si trabocca,
spinto di qua e di là dal timor cieco;
e Mandricardo se ne porta seco.
89
Doralice che vede la sua guida
uscir dal campo e torlesi d’appresso,
e mal restarne senza si confida,
dietro, correndo, il suo ronzin gli ha messo.
Il pagan per orgoglio al destrier grida,
e con mani e con piedi il batte spesso;
e, come non sia bestia, lo minaccia
perché si fermi, e tuttavia più il caccia.
90
La bestia, ch’era spaventosa e poltra,
sanza guardarsi ai piè, corre a traverso.
Già corso avea tre miglia, e seguiva oltra,
s’un fosso a quel desir non era avverso;
che, sanza aver nel fondo o letto o coltra,
riceve l’uno e l’altro in sé riverso.
Diè Mandricardo in terra aspra percossa;
né però si fiaccò né si roppe ossa.
91
Quivi si ferma il corridore al fine,
ma non si può guidar, che non ha freno.
Il Tartaro lo tien preso nel crine,
e tutto è di furore e d’ira pieno.
Pensa, e non sa quel che di far destine.
– Pongli la briglia del mio palafreno
(la donna gli dicea); che non è molto
il mio feroce, o sia col freno o sciolto. –
92
Al Saracin parea discortesia
la proferta accettar di Doralice;
ma fren gli farà aver per altra via
Fortuna a’ suoi disii molto fautrice.
Quivi Gabrina scelerata invia,
che, poi che di Zerbin fu traditrice,
fuggia, come la lupa che lontani
oda venire i cacciatori e i cani.
93
Ella avea ancora indosso la gonnella,
e quei medesimi giovenili ornati
che furo alla vezzosa damigella
di Pinabel, per lei vestir, levati;
ed avea il palafreno anco di quella,
dei buon del mondo e degli avantaggiati.
La vecchia sopra il Tartaro trovosse,
ch’ancor non s’era accorta che vi fosse.
94
L’abito giovenil mosse la figlia
di Stordilano, e Mandricardo a riso,
vedendolo a colei che rassimiglia
a un babuino, a un bertuccione in viso.
Disegna il Saracin torle la briglia
pel suo destriero, e riuscì l’aviso.
Toltogli il morso, il palafren minaccia,
gli grida, lo spaventa, e in fuga il caccia.
95
Quel fugge per la selva, e seco porta
la quasi morta vecchia di paura
per valli e monti e per via dritta e torta,
per fossi e per pendici alla ventura.
Ma il parlar di costei sì non m’importa,
ch’io non debba d’Orlando aver più cura,
ch’alla sua sella ciò ch’era di guasto,
tutto ben racconciò sanza contrasto.
96
Rimontò sul destriero, e ste’ gran pezzo
a riguardar che ‘l Saracin tornasse.
Nol vedendo apparir, volse da sezzo
egli esser quel ch’a ritrovarlo andasse;
ma, come costumato e bene avezzo,
non prima il paladin quindi si trasse,
che con dolce parlar grato e cortese
buona licenza dagli amanti prese.
97
Zerbin di quel partir molto si dolse;
di tenerezza ne piangea Issabella:
voleano ir seco, ma il conte non volse
lor compagnia, ben ch’era e buona e bella;
e con questa ragion se ne disciolse,
ch’a guerrier non è infamia sopra quella
che, quando cerchi un suo nimico, prenda
compagno che l’aiuti e che ‘l difenda.
98
Li pregò poi, che quando il Saracino,
prima ch’in lui, si riscontrasse in loro,
gli dicesser ch’Orlando avria vicino
ancor tre giorni per quel tenitoro;
ma dopo, che sarebbe il suo camino
verso le ‘nsegne dei bei gigli d’oro,
per esser con l’esercito di Carlo,
acciò, volendol, sappia onde chiamarlo.
99
Quelli promiser farlo volentieri,
e questa e ogn’altra cosa al suo comando.
Feron camin diverso i cavallieri,
di qua Zerbino, e di là il conte Orlando.
Prima che pigli il conte altri sentieri,
all’arbor tolse, e a sé ripose il brando;
e dove meglio col pagan pensosse
di potersi incontrare, il destrier mosse.
100
Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
101
Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.
102
Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: – Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. –
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.
105
Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
106
Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.
107
Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:
108
– Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:
109
e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia. –
110
Era scritto in arabico, che ‘l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.
111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ‘l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.
113
L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.
115
In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.
116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.
117
Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
118
Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:
119
come esso a prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:
120
e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ‘l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.
121
Questa conclusion fu la secure
che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
122
Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.
123
In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.
125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ‘l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
126
– Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ‘l dolore e la vita all’ore estreme.
127
Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ‘l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ‘n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
128
Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza. –
129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ‘l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
133
Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.