Le ragioni dell’esilio di Dante furono di carattere politico.
Dante Alighieri apparteneva alla fazione dei guelfi bianchi, contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale ed in perenne lotta con la fazione avversaria dei guelfi neri, ed ebbe una carriera politica di discreta importanza.
Quando il papa mandò Carlo di Valois a Firenze come teorico paciere tra le due fazioni guelfe, la Repubblica fiorentina inviò a Roma una rappresentanza diplomatica della quale faceva parte Dante stesso.
Dante si trovava a Roma, trattenuto oltre misura proprio dall’acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo pretesto, mise a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301 Cante Gabrielli da Gubbio fu nominato Podestà di Firenze e diede inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli elementi ostili al papa, che si risolse nell’uccisione o nell’esilio di tutti i guelfi bianchi. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, il poeta fu condannato in contumacia; raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma, Dante non rivide mai più la sua Firenze.
Nella Divina Commedia a predire il futuro esilio al sommo poeta sono prima Farinata degli Uberti, nel Canto X dedicato agli eresiarchi (fondatori di dottrine eretiche o capi di eretici), e poi Brunetto Latini, maestro di Dante, nel Canto XV dedicato ai violenti contro Dio ed in particolare ai violenti contro la natura, figlia di Dio. Nel purgatorio a fare la stessa predizione saranno invece Corrado Malaspina nel Canto VII, della valle fiorita che ospita i principi ed i sovrani, e Oderisi da Gubbio nel Canto XI, dedicato ai superbi.