Giacomo Leopardi dedica i versi della poesia A Silvia ad una ragazza in cui si può riconoscere Teresa Fattorini, vicina di casa dello scrittore e morta giovanissima di tubercolosi.
Questo poema, che si potrebbe apparentemente scambiare per una dichiarazione d’amore, è in realtà un’amara riflessione sulla vita e sulla giovinezza. La triste vicenda di Teresa è per Leopardi lo spunto per riflettere sulle sue tristi analogie con l’esistenza umana: il poeta spiega come all’illusione e alla speranza degli anni giovanili si sostituiscano tristemente, nell’età adulta, il disincanto e l’amarezza per le sofferenze che la vita impone.
Per meglio rimarcare il distacco tra l’età dell’adolescenza e l’età adulta, Giacomo Leopardi divide il poema in due parti: nella prima descrive la spensieratezza della gioventù (Silvia viene vista nella spensieratezza della sua giovane vita, intenta ai lavori quotidiani, al telaio, mentre il suo canto si diffonde tutt’intorno e la sua mente è occupata dal pensiero dell’indefinito e desiderato avvenire); nella seconda parte riflette invece sulla morte di Silvia e, più in generale, sulla distruzione delle speranze e sulla disillusione dell’uomo adulto (le speranze sono svanite e l’uomo si rende conto dell’unica vera meta, la morte).
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
Parafrasi:
Silvia, ricordi ancora
quel tempo della tua vita
quando la bellezza risplendeva
negli tuoi occhi ridenti e fuggitivi, che esprimevano gioia e timidezza,
e tu lieta e pensierosa
entravi nell’età della giovinezza?
Risuonavano le quiete
stanze della tua casa e le vie d’intorno
del tuo continuo canto,
quando ai lavori femminili
dedicavi te stessa, contenta
del felice futuro che avevi in mente per te.
Era il profumato maggio e tu eri solita
trascorrere così le tue giornate.
Io, abbandonando talvolta i miei piacevoli studi
e le carte su cui mi affaticavo,
e sulle quali consumavo il mio tempo giovanile
ed anche la maggior parte di me stesso,
dai balconi della casa paterna
ascoltavo il suono della tua voce
ed anche quello della tua mano che veloce
scorreva sulla tela, frutto di un faticoso lavoro.
Osservavo in quei momenti anche il cielo sereno,
le vie illuminate e gli orti,
da una parte, lontano, il mare e dall’altra i monti.
La lingua umana non può esprimere
ciò che provavo allora dentro di me.
Quali dolci pensieri,
quali speranze, quali sentimenti, oh Silvia mia!
In che modo ci appariva allora
la vita ed il destino!
Quando mi torna in mente il ricordo di quella grande speranza,
mi sento opprimere da un dolore
pungente e che non può trovare conforto,
e torno a dolermi della mia sfurtunata vita.
O natura, o natura,
perché non restituisci poi
ciò che prometti in gioventù? Perché inganni così tanto
i tuoi figli?
Tu Silvia, prima che l’inverno inaridisse le erbe,
combattuta e vinta da una malattia invincibile,
morivi, oh dolce creatura. E non riuscivi così a vedere
il fiore, il meglio dei tuoi anni;
non ti raddolcivano il cuore
i dolci complimenti a volte per i tuoi capelli neri
altre per il tuo sguardo innamorato e schivo, sfuggente;
e nemmeno nei giorni festivi le compagne
discutevano con te d’amore.
Non molto dopo moriva anche
la mia dolce speranza: anche agli anni miei
il destino negò
la giovinezza. Ahimè come,
come sei te ne sei andata in fretta,
amata compagna della mia giovane età,
speranza mia sempre rimpianta!
Questo è quel mondo che mi avevi promesso? Sono queste
le gioie, l’amore, le opere, gli eventi
di cui abbiamo così tanto parlato insieme?
È questa la sorte delle genti umane?
Al mostrarsi della verità
tu (speranza), misera, moristi: ed
una nuda tomba e la fredda morte
mi mostravi con la mano da lontano.